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Louis Dorigny (1654-1742)

Verona riscopre un suo illustre pittore di corte.

La conoscenza di un artista è sempre legata alla sua fortuna critica. Accade spesso che il rapporto tra vicende artistiche e il gusto di un’epoca viva un insanabile contrasto; ecco allora nascere personalità ignorate dall’ufficialità artistica talvolta baciate dal genio creativo, come i vari Van Gogh e Modigliani. La storia dell’arte è fatta però anche di valenti artisti che hanno potuto saggiare la fama in vita, coccolati da committenti e collezionisti e, negli ultimi due secoli, dai pubblici musei.

Louis Dorigny, San Cristoforo (1694).

La ruota della fortuna critica non risparmia però nessuno, e chi sta sulla bocca degli intenditori di un secolo, nel successivo può piombare nel dimenticatoio della storia. E se ciò è accaduto per intere epoche - si pensi alle forme del gotico, maltrattate dal rinascimento prima, da classicismo e barocco poi - tanto più è stata prassi comune con innumerevoli artisti di ogni epoca, che per un mutamento di gusto sono stati svalutati fino al disprezzo, per poi riemergere dal nulla grazie a nuovi gusti e al lavoro di attenti studiosi.

Emblematico caso di giro alla ruota della fortuna critica è quello offertoci dall’interessante mostra (fino al 2 novembre) al museo di Castelvecchio a Verona, dedicata a Louis Dorigny (1654-1742), francese di nascita ma assai attivo in Veneto, ricercatissimo sia dalla committenza ecclesiastica quanto - e soprattutto - da quella nobiliare, ma trascurato successivamente per molto tempo. Questa mostra e l’importante catalogo che l’accompagna rendono finalmente un giusto tributo all’artista.

Nato a Parigi nel 1654, Louis Dorigny, nipote di Simon Vouet - importante interprete del classicismo francese - e figlio dell’incisore Michel, affinò da una parte il linguaggio classicista alla base della sua formazione svolta presso Charles Le Brun, e dall’altra, grazie al trasferimento in Italia e alla conseguente visione diretta delle opere del primo Seicento bolognese ammirate soprattutto nel corso del suo soggiorno romano nel 1671, sperimentò nei suoi lavori una particolare forma di barocco che apre al colorismo luminoso del Settecento.

Tra il 1678 e il 1688 Dorigny è già documentato a Venezia, ove trovò fama tra la committenza aristocratica grazie alle sue orchestrali composizioni a fresco e a stucco, per lo più a soggetto allegorico e mitologico ("eroica e sublime" venne definita al tempo la sua pittura), delle quali ci rimane testimonianza a Ca’ Zenobio, lavoro risalente ai primi anni Novanta del XVIII secolo; delle vere e proprie novità per la città lagunare, ove la prassi era la pittura su tela e non certo il berniniano "bel composito" fatto di un mélange di affreschi e stucchi, quadri incastonati e specchi dorati.

Nel 1687 egli giunse, probabilmente grazie all’interessamento di qualche committente veneziano che funse da tramite, a Verona, ove divenne in poco tempo il più ricercato decoratore di ville e palazzi, anche se non fu meno attivo in campo ecclesiastico, soprattutto con pale d’altare, a partire dai lavori eseguiti per la chiesa di S. Eufemia. Nella città scaligera Dorigny trascorse metà della sua vita, fino alla morte, e non è quindi un caso il tributo scaligero alla sua figura, visto anche il fatto che fu proprio lui a introdurre in città la pittura barocca, seppur ancor legata alla compostezza del classicismo.

Fulcro dell’esposizione sono le grandi lunette (600x300 cm!) databili 1692-3 eseguite per la Cappella dei Notai nel Palazzo Comunalea Verona. Oltre a ciò, una settantina di opere riferibili al maestro, e nelle tecniche più varie: dall’olio su tela all’affresco, dall’incisione agli appunti grafici caratterizzati da una stilizzazione quasi fumettistica; per l’occasione è stato esposto tutto il corpus riferibile all’autore posseduto dal museo di Castelvecchio, qui per la prima volta esposto unitariamente. Ai lavori di Dorigny sono state affiancate altre opere di artisti operanti a Verona a lui coevi: il giusto corredo per la ricostruzione visiva di un’epoca. Un video invita poi al viaggio tra ville, chiese e palazzi affrescati dall’artista, imprescindibili per una completa comprensione della sua figura; non solo Verona e Venezia, ma un po’ tutto il Veneto ospitò infatti le sue sapienti composizioni: da Padova a Vicenza, da Treviso fino a punte fuori regione, come i lavori a Vienna eseguiti per Eugenio di Savoia o gli affreschi portati a termine per il Duomo di Trento, dei quali rimangono ora solo alcuni lacerti, tra l’altro attualmente in mostra al Castello del Buonconsiglio.

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