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Il mercato delle pulci... nell’orecchio

Feydeau e il vaudeville riproposti oggi tali quali: ma il tempo è passato. "Il mercato delle pulci" dello Stabile di Bolzano, confonde la comicità con la farsa stile Baglino.

Il pubblico, quasi tutto, applaude a lungo. Qualcuno è assente, fuggito disgustato dopo il secondo atto. Noi siamo ancora lì, ma non ci uniamo all’entusiasmo generale. Pensiamo invece a che cosa è andato storto. In fondo "La pulce nell’orecchio" di Feydeau è per sua natura un testo faceto e leggero. Perché scandalizzarci di fronte a battute consunte tipo "Cielo, mio marito!"? A cavallo fra Otto e Novecento, la borghesia a teatro si divertiva così, con i personaggi farseschi del vaudeville. Il Teatro Stabile di Bolzano ha solo riproposto quello stile, restando fedele al modello. Eppure, a sipario alzato (ma anche prima), più ci riflettiamo e più cozzano fra loro i vari elementi dello spettacolo. L’impressione è che l’insieme non abbia un minimo di freschezza o innovazione, come se una patina di vecchio più che di antico avesse annullato sopra il palco tutte le conquiste del teatro degli ultimi cinquant’anni. Fedeltà al modello, dicevamo… eppure, se il tempo passa, bisogna tenerne conto, non si può andare avanti guardando solo indietro.

Partiamo dalla voce degli attori. Una recitazione forzata, sopra le righe, caricaturale, che sarebbe stata azzeccata nel secolo scorso ma che oggi non può accontentarsi di rubare una risata al pubblico, quasi comprandola a suon di gridolini e timbri artefatti. Ci stupisce poi che il doppio ruolo affidato a Paolo Bonacelli si sia ridotto a un clone dello stesso personaggio. La differenza tra il borghese Chandebise e il proletario Poche la si nota giusto dai vestiti e dal numero di parolacce per minuto. Un po’ poco visto che si tratta dei due protagonisti. Ma Bonacelli, a dire il vero, ci è parso anche sotto tono, tanto che alcune sue battute – abbiamo controllato – sono risultate incomprensibili a buona parte del pubblico. E ciò per il semplice fatto che l’attore biascicava le parole. E’ inutile, stavolta, tirare in campo l’acustica "imperfetta" dell’Auditorium: non si tratta di un problema di volume, bensì di dizione.

Un altro elemento che ci ha procurato fastidio è la gestualità, specialmente nel secondo e terzo atto, in cui s’è sfiorato più volte il peggior repertorio della pantomima. Un genere di tutto rispetto se affrontato con cognizione di causa, peccato però che, in questo allestimento, la farsa ci abbia ricordato il Bagaglino. Calci palesemente finti nel sedere, svenimenti plateali, gag di dubbio gusto… Insomma, dal Teatro Stabile di Bolzano ci aspettavamo ben altro, un’operazione intelligente in grado di restituirci la freschezza di Feydeau, non il suo vecchiume. Diciamo questo proprio perché apprezziamo il lavoro portato avanti, ormai da anni, da Carlo Simoni e Patrizia Milani; e ci stupiamo che dalla messa in scena traspaia poco o nulla della loro professionalità. Il problema è forse che non hanno saputo distinguere il sottile dislivello tra farsa e comico, entrambi presenti nel vaudeville ma in diverse percentuali. Così hanno scelto la via più semplice, senza però poterselo permettere. Non riusciamo a credere che un Simoni, una Milani e un Bonacelli, con tutta la loro esperienza, abbiano la stessa irresistibile ingenuità di un Bud Spencer e un Terence Hill con le loro scazzottate. Il metro di giudizio deve essere tarato anche sul livello intellettuale. Fra tutti, comunque, spicca per bravura e simpatia Roberto Tesconi, abilissimo nel pronunciare intere frasi senza consonanti, ma evitando di strafare come gli altri attori. Si segnala inoltre la Milani, con la sua recitazione più misurata e naturale.

Infine, ci teniamo a far notare che non basta la scritta "Paris" per fare Parigi e i suoi locali ambigui. Anzi, magari sarebbe stato meglio abolirla dalla scenografia. Anche perché scene e costumi, rispettivamente di Gisbert Jaekel e Roberto Banci, erano ciò che di più sobrio, piacevole e accurato si sia visto quella sera all’Auditorium. E loro sì avrebbero meritato una più nobile causa, invece che essere sacrificati per un pasticcio teatrale.

Il comico ha una lunga tradizione che bisogna saper capire, amare, rispettare. Altrimenti il kitsch è dietro l’angolo. Per fortuna, sotto le feste, abbiamo visto uno spettacolo unico (rimasto senza recensione per motivi di spazio): "Le cirque invisibile". Victoria Chaplin e Jean Baptiste Thierrée, con la loro maestria ed umiltà, ci hanno insegnato che il comico è l’arte, se non addirittura la poesia, del "ridere seriamente". Forse per Feydeau era chiedere troppo, ma non lo è per chi pretende di essere professionale, anche attraverso il tradimento del modello, scelte che il pubblico potrebbe non gradire. Il coraggio bisogna trovarlo, perché l’alternativa è passare per una compagnia che si dà al miglior offerente convincendosi di fare teatro.

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