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L’orgoglio di un perdente

Mauro De Carli

Recentemente, quasi per caso, mi sono ritrovato a leggere tra le carte riposte in libreria di casa il mio "curriculum vitae". Salta subito all’evidenza un dato piuttosto curioso (però per me non sorprendente): lo scandire delle mie vicende è evidenziato molto più dalle sconfitte che non dai successi. Ora, siccome un curriculum normalmente si presenta come un biglietto da visita, un consuntivo di fatti a testimonianza di una crescita positiva, mi incuriosisce capire perché per me non sia così. Da qui alcune riflessioni; non perché, compiuti i sessant’anni, di cui 40 e più dedicati alla scultura, mi senta in dovere di presentare rendiconti di sorta, ma piuttosto perché questo dato mi pare rappresenti una "presenza" diversa.

La spinta alla contraddizione o meglio al contraddittorio si manifestò in me molto precocemente, certo consapevole che il principio del confronto fosse la base indispensabile al rispetto delle diversità e uno stimolo all’approfondimento. I primi scontri ci furono assai presto, adolescente, ai tempi dell’istituto d’arte, dove ci si doveva confrontare con una dirigenza e una classe docente mediocre e bottegaia che ci spinse alla contestazione e alle prime riflessioni su quello che realmente ci interessava.

L’accademia di belle arti fu viceversa una bella conquista: ritrovarsi a Milano senza risorse finanziarie e con il bagaglio di una formazione intellettuale da dimenticare, vi assicuro fu una fatica non da poco. La convinzione di restare lì e tener duro era comunque fuori discussione perché molti e forti erano gli stimoli. Lì avvennero le prime soddisfazioni e inevitabilmente le prime sconfitte. Gli studi all’accademia volarono in fretta e subito si presentarono le prime occasioni per delle scelte importanti. Se da una parte ebbi la fortuna di trovare aiuto in Alik Cavaliere (assistente di Marino Marini e successivamente docente di una cattedra di scultura), dall’altra mi fu subito chiaro qual era il percorso destinatomi. Ora Cavaliere purtroppo non c’è più, ma sono convinto che ancora si starà domandando come mai un giovane come ero allora avesse potuto rifiutare tante occasioni che egli con sapiente generosità mi aveva saputo creare; se ci penso ora posso capire la sua delusione che peraltro, da persona intelligente, seppe sempre nascondermi. Il fatto era che tutto l’apparato intellettuale delle arti visive e dell’ambiente intellettuale milanese in genere, in quegli anni, malgrado le apparenze era sostanzialmente il prodotto dei salotti buoni della città: dietro ogni atteggiamento di apparente rottura si avvertiva che quella cultura "di sinistra" era appesantita dalla presenza di una certa matrice snob che si concretizzava in una pratica molto borghese. Era significativo, ad esempio, che tra gli artisti di allora la parola spesa più frequentemente nei loro incontri fosse "divertente". C’era la consuetudine di un atteggiamento goliardico che non sono mai riuscito a condividere. Mi trovai così costretto a declinare occasioni vantaggiose per seguire una strada diversa. Contemporaneamente in quegli anni avevo cominciato a frequentare la Galleria delle Ore in via Fiori Chiari di Giovanni Fumagalli, avevo stabilito un intenso legame con il pittore Gino Meloni, il figlio Ermes, (bravissimo scultore) e una ristretta cerchia di artisti diversi, testimoni di un modo di essere di grande valore e sovente di una sconcertante semplicità.

Le strade si divisero inevitabilmente. Lì di divertente non c’era niente, in compenso si parlava di pittura, di scultura, di uomini, persone e cose descritti con parole e sentimenti che da sempre avevo inconsciamente cercato. Fu un periodo molto importante e di scelte decisive: ci trasferimmo in campagna con tutta la famiglia per poter essere più vicini ai Meloni e alla famiglia artistica di Lissone. Furono anni fecondi e complessi: Milano negli anni ‘70 era diventata una citta difficile e incattivita da scontri di piazza pressoché quotidiani e la realtà culturale era ridotta a una continua lite politica. Al liceo si faceva lezione un giorno sì e uno no, la polizia presidiava i locali e si respirava ovunque un clima di tensione. La bella e accattivante città che avevo conosciuto dieci anni prima era stata spazzata via in modo drastico e spietato dai sessantottini e i giovani artisti emergenti erano tutti presi ad accappararsi le sedie rimaste vuote dalla contestazione. Brera aveva perso il suo fascino internazionale unitamente all’abbandono degli ultimi illustri maestri. Poi, lentamente la mia vocazione agli insuccessi tornò ad avere il suo corso: alcuni diverbi con Fumagalli (peraltro molto civili) ormai vecchio e quasi cieco, mi allontanarono dalla galleria delle Ore; Lissone durò ancora qualche anno e fu per me un sostentamento importante, l’amicizia con Ermes Meloni mi ripagava abbondantemente di tutte le difficoltà. Tuttavia la strada era anche qui segnata: lavoravo ancora per il vecchio Meloni che dava già segni però della malattia che lo avrebbe portato alla morte. Poi, improvvisamente mi arrivò lo sfratto della casa e dello studio. Non seppi superare queste difficoltà anche perché nel frattempo giungevano da Trento notizie incoraggianti per una probabile soluzione. C’era la possibilità di risolvere il problema della casa e dello studio e al contempo la proposta di aprire una libera scuola di pittura, scultura ed incisione. In breve tempo piantai il liceo, lasciai Lissone e la scuola della famiglia artistica dove nel frattempo avevo organizzato la sezione di incisione, e tutti a Trento!

Ma Trento si rivelò ben presto per quello che era. Tutte le prospettive e le lusinghe dell’inizio trovarono ostacoli in una realtà culturalmente atrofizzata e super protetta, impenetrabile a chiunque fosse estraneo ai suoi consolidati miopi interessi. Riuscimmo a salvare la scuola (che nel frattempo era diventata circolo culturale) da logiche e pressioni bottegaie decretandone così inevitabilmente la fine per problemi finanziari. Dovetti ingoiare il boccone amaro di tornare all’insegnamento e proprio all’istituto d’arte, una scuola che rappresentava tutto quello che speravo cambiasse!

Questo è tutto, ma non è la fine, nuove sconfitte si profilano all’orizzonte anche se nel frattempo ho rinunciato al supplizio dell’insegnamento.

Nel rileggere questa mia storia, pur fatta di rinunce e ripensamenti, non riesco a vederci il senso della sconfitta, al contrario. Pur riconoscendo di non poter vantare traguardi di prestigio nella mia carriera di scultore, provo tuttavia un senso di giustezza a consolazione dei miei fallimenti. E questo non perché la nobiltà di essere eroi possa consolarci, ma perché il valore e la fondatezza delle proprie convinzioni si rafforza con il confronto. Sfortunatamente questo avviene in un momento nel quale le scelte di civiltà sembrano andare in direzione opposta alle mie convinzioni ma di questo non ho alcuna responsabilità.

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