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Sudafrica, piccole avventure di viaggio

Resoconto di un viaggio fra Sudafrica e Lesotho.

Serena Rauzi

All’inizio di dicembre la scuola cui ho collaborato durante il mio soggiorno a Johannesburg chiude per la fine dell’anno scolastico e per dare a insegnanti e alunni il meritato riposo di una vacanza, allo stesso tempo estiva e natalizia, lunga un mese. Così, priva d’impegni lavorativi, con la mia amica e collega Elaine (una volontaria irlandese), ho affrontato un viaggio, zaino in spalla, attraverso il Sudafrica sui mezzi di trasporto pubblici. Questi possono essere i grandi autobus di linea, che percorrono lunghissime distanze, anche migliaia di chilometri, collegando per esempio Johannesburg con Cape Town, o mezzi più modesti e meno costosi come i taxi cosiddetti pubblici. Noi, povere volontarie, abbiamo preferito questi ultimi: minibus con una capienza di 16 posti, che non partono se prima non sono stati completamente riempiti: spesso bisogna quindi armarsi di pazienza e aspettare anche delle ore. Questi mezzi sono utilizzati quasi esclusivamente dalla popolazione nera, che non può permettersi il trasporto più comodo e forse più sicuro dei grandi pullman.

Armate di coraggio e buona volontà, ci avviamo quindi verso l’affollatissima stazione dei taxi della metropoli e occupiamo due posti su un mezzo stracolmo di gente e bagagli diretto a Maseru, capitale del Lesotho. Io sono stretta tra Elaine e la portiera, mentre lei, col suo peso, deve impedire a una montagna di borse e valigie di rovinarle addosso. Fortunatamente non dobbiamo aspettare a lungo che il taxi si riempia e così, dopo un viaggio sorprendentemente rapido, ma tutt’altro che confortevole, di 4 ore, ci ritroviamo al confine col Lesotho.

Maseru si rivela una città piccola e con nessuna attrattiva: mi colpisce solo la grande quantità di taxi pubblici e privati fermi ai lati della strada in attesa di clienti; e noi, per continuare nell’interno di questo piccolo stato povero e montuoso, ci rechiamo alla stazione centrale dei taxi per trovare un trasporto verso la località di Malealea, nella parte occidentale del paese. Stavolta l’attesa è lunga, circa due ore. Due ragazze bianche non passano inosservate in un paese mai occupato da forze di colonizzazione occidentali, sono una presenza esotica, significano turismo, soldi. Durante l’attesa veniamo quindi attorniate da ragazzini che tentano insistentemente di venderci bibite, frutta, giocattoli e oggetti vari; l’anziana signora seduta davanti a noi, senza nemmeno una parola di inglese ci chiede con ferma gentilezza una tazza della nostra acqua, mentre un ragazzino cerca di venderci un giornale scritto in lingua Sotho. Finalmente il taxi è pieno e si può partire.

Sulla corriera verso Malealea.

I tassisti, in tutto il mio girovagare attraverso il paese, si sono dimostrati sempre pronti a dare le informazioni giuste e ad agevolare il viaggiatore consigliando quale trasporto prendere, anche quando ciò poteva essere controproducente per i loro affari. Così, quando dobbiamo cambiare taxi per arrivare alla nostra destinazione, e il secondo mezzo non si riempie, su consiglio del conducente approfittiamo dell’autobus che passa proprio di lì, un autobus molto vecchio, con bagagli e merci fissate sul tetto. Appena entrata, mi sento catapultata in un altro tempo: panche di ferro come sedili, mentre la gente ci guarda incuriosita e ci sorride. Dal finestrino vedo una terra rossa ripartita in piccoli appezzamenti coltivati, dove i contadini spingono aratri di legno trainati dai buoi. Due bambine bellissime, sedute davanti a noi, ci osservano con sguardi che esprimono allo stesso tempo curiosità, timore e divertimento. Stanno tornando a casa dalla mamma per il week end dopo una settimana di scuola nella capitale. Un vecchietto, probabilmente con qualche bicchiere di troppo nello stomaco, chiacchierare cordialmente con noi (il suo inglese è sorprendentemente buono) e alla fine si lascia fotografare.

Dopo una sosta di qualche giorno a Malealea (un paese agricolo con le case in terra cotta, privo di corrente elettrica, il che rende il cielo stellato uno spettacolo stupendo), il nostro viaggio prosegue in balia di tassisti di cui dobbiamo fidarci senza ottenere risposte alle nostre domande di conferma. Gli uomini non rispondono quasi mai a domande poste da donne, ma il loro silenzio non significa che non abbiano sentito o che ti portino in direzioni sbagliate.

Donne a Quitting.

Sballottate di taxi in taxi, raggiungiamo Quitting, un grosso paese nel sud del Lesotho, dove mi sento un animale raro: tutti ci salutano con cordialità, i bambini si avvicinano curiosi, i più coraggiosi ci accarezzano la pelle bianca, i più piccoli fuggono spaventati, altri ci girano intorno sospettosi e divertiti. E’ qui che ho scoperto che in Africa le mamme per far star buoni i bambini li minacciano dicendo loro che, se non fanno i bravi, arriva l’uomo bianco che li porta via…

Dopo una settimana di caldo torrido e siccità implacabile, varchiamo il confine per tornare in Sudafrica.

Nella prima località subito dopo il confine, il tassista, che non trova altri clienti per riempire il suo mezzo e quindi poter partire, ci trova egli stesso un altro veicolo ormai al completo, che va esattamente nella nostra direzione: ci può portare fino ad Aliwal North. Mi sorprende questo suo rinunciare alle sue uniche clienti, badando più alla nostra necessità di partire che al suo personale interesse.

Il piccolo autobus è occupato da un gruppo di militanti politici diretti alla "traslazione" di un martire dell’apartheid, che, morto in Zimbabwe, ora verrà finalmente sepolto in terra sudafricana. Su questo veicolo assistiamo al più emozionante spettacolo canoro cui abbia mai avuto modo di assistere. I canti nascono spontanei da una o due persone e poi prendono forza col moltiplicarsi delle voci e l’intervento delle profonde tonalità maschili di alcuni ragazzi seduti dietro di noi. Una signora, una big mama con la corporatura di una donna robusta e forte, aveva una voce così soave da riuscire a emozionare. Noi due, estasiate, partecipiamo facendoci trascinare dal ritmo, unendoci a loro nel battere le mani.

Dopo esserci accomiatate da questa splendida compagnia proseguiamo il viaggio, a volte facendo l’autostop, a volte trovando fortuitamente mezzi di trasporto inaspettati, ma efficienti. Ad Alyce, ad esempio, per poter arrivare a Graaf Reinet nel deserto del Karoo, ci affidiamo a due signore bellissime e intraprendenti che dirigono un’attività di trasporti, non so quanto legale. Dopo tre ore di attesa, il fantomatico autobus diretto a CapeTown, con tappa a Graaf Reinet, si ferma nella movimentata stazione dei taxi di Alyce e noi, che stavamo per perdere ogni speranza, possiamo continuare il viaggio. Se qualcuno in Sudafrica ti dice che in quel posto arriverà un mezzo o succederà qualcosa, si può stare certi che prima o poi questo qualcosa si verificherà. Il problema è sapere quando… La concezione del tempo, qui come nel resto dell’Africa, è relativa e poco importante. L’attesa è un elemento naturale della vita e nessuno se ne lamenta. Dopo un po’, anche in seguito alle mie esperienze in ospedale, me ne sono fatta una ragione, facendo passare il tempo grazie a un libro, osservando le persone intorno, oppure conversando con i compagni d’attesa. Ciò che non dimenticherò della gente incontrata durante questo viaggio è la grande disponibilità a fornire informazioni (e nel caso non avessero la risposta sapevano sempre a chi indirizzarti), i canti e i grandi sorrisi, soprattutto delle donne, da cui non sono mai rimasta delusa.

A Graaf Reinet troviamo una tassista donna (caso raro in Sudafrica), che aspetta di riempire il suo mezzo. Alla nostra richiesta di informazioni, cerca di aiutarci, senza chiedere nulla in cambio. In questo Paese la criminalità e la violenza hanno un tasso elevatissimo, e allo stesso tempo stupisce l’onestà e l’aiuto disinteressato che quasi tutti sono disposti ad offrirti. La nostra cultura del business e dell’interesse del singolo anteposto a quello della collettività e del prossimo, fortunatamente non ha preso completamente piede in un paese che pure è fra i più occidentalizzati dell’Africa.

Per arrivare sulla costa, dove vogliamo trascorrere Natale e Capodanno, compriamo i biglietti per il trasporto su pullman, più sicuro, anche se più costoso. Il desiderio di evitare, per una volta, i pericoli e quindi fare un viaggio comodo viene però deluso: convinte di aver perso la corsa (forse è stata l’unica informazione sbagliata ricevuta durante il nostro viaggio), accettiamo un passaggio offertoci da un altro pullman, che però va nella direzione opposta a quella in cui siamo dirette. Così, con due giorni di ritardo, e con un Natale trascorso su un autobus, raggiungiamo la nostra meta - Cinta, presso East London - dove possiamo rilassarci sulla spiaggia, affrontando le onde dell’Oceano Indiano e forse anche l’ultimo sussulto dello Tsunami che raggiunge proprio in quei giorni anche le coste africane.