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QT n. 13, 2 luglio 2005 Servizi

Stava: oggi, cosa ne rimane?

Lo sconfortante bilancio a vent’anni dalla tragedia.

Il 19 luglio 1985, poco dopo le ore 12, cedette il bacino superiore di contenimento dei residui della miniera di Prestavel, in Valle di Stava. La frana di acqua e fango trascinò a valle, travolgendo l’abitato di Stava e una parte del paese di Tesero, il secondo bacino sottostante, con 180 mila metri cubi di materiale crollato e 50 mila metri cubi di materiale erosivo.

Furono distrutti 53 case, 3 alberghi, 3 capannoni, 8 ponti, sradicati centinaia di alberi, con altri danni minori. Morirono 268 persone, residenti e turisti in vacanza, tra loro 28 bambini con meno di dieci anni, 31 ragazzi sotto i 18 anni.

Il procedimento penale si concluse nel 1992 con la condanna di 10 imputati giudicati colpevoli di disastro colposo e omicidio plurimo. Erano i responsabili della costruzione e gestione del bacino superiore; i direttori di miniera e alcuni responsabili delle società intervenute nelle scelte sul manufatto; i responsabili del Distretto Minerario della Provincia di Trento, che omisero i controlli sulle discariche. Nessuno degli imputati condannati scontò la pena detentiva.

Cosa rimane dopo vent’anni del fango, cosa rimane della morte assurda di 268 persone? Cosa rimane del rumore della stampa, della ricostruzione degli errori commessi, degli atti processuali, delle riflessioni o della rabbia o della promessa "Mai più" ?

Prima di Stava c’era stata la frana alla diga del Vajont, che aveva causato la morte di duemila persone. C’era stato l’ incidente criminoso della caduta della funivia del Cermis. C’erano stati altri incidenti minerari in condizioni analoghe, dei quali la letteratura tecnica di settore documentava le cause. Gli errori umani causa di tutte queste tragedie erano stati chiariti. Eppure, dopo Stava, ci sarebbero stati ancora decine di altri incidenti minerari nel mondo, come se la morte, i processi, le analisi non servissero a nulla.

Nel maggio di quest’anno si è tenuta a Trento una conferenza su Stava organizzata dall’Associazione "ISF-Ingegneria Senza Frontiere", che si occupa di cooperazione allo sviluppo. Scopo dell’incontro era raccontare ai giovani ingegneri di oggi, progettisti di domani, i terribili errori commessi dai loro colleghi e da altri tecnici nella vicenda. E di capire cosa e perché accadde.

Un primo dato: quel giorno in sala c’erano poche persone, quasi esclusivamente studenti o giovani ingegneri; eppure l’ incontro si teneva in Facoltà, in orario a ridosso della fine delle lezioni, organizzato da un’associazione conosciuta da studenti e docenti.

Giovanni Paolo II a Stava.

Sui volti dei presenti si leggeva uno scollamento tra le cose raccontate in sala e la loro esperienza di analisi progettuale.

In effetti le domande poste tradivano ingenuità e mancanza di elaborazione rispetto al contesto culturale, sociale, politico in cui accaddero i fatti; eppure tra poco questi giovani andranno nel mondo a progettare, a determinare cantieri e opere.

Qualcuno dei ragazzi proponeva addirittura un incontro fra le famiglie delle vittime e i responsabili del crollo, ignorando che i condannati asseriscono da sempre la propria innocenza.

Qualcuno insisteva sulla mancanza di consapevolezza della popolazione, che allora avrebbe dovuto chiedere conto delle opere innalzate sopra le case. Già, perché la popolazione non seppe difendersi ?

Questa è stata sostanzialmente l’ unica questione posta; nessuno ha cercato di capire da dove nasceva l’operato sconsiderato di tante persone e di diverse società anche di notevole spessore imprenditoriale (come Montedison) in vent’anni di gestione.

Ricostruiamo il contesto andando oltre le accertate, gravissime, responsabilità, sulla base della lettura delle carte processuali e delle sentenze.

I giudici e i periti di parte civile e del Tribunale nei diversi gradi di giudizio in sostanza hanno affermato che la costruzione e il controllo dei bacini furono eseguiti da persone non competenti che tuttavia sottovalutarono la propria impreparazione, così come il rischio e la complessità del sistema idraulico e meccanico che andavano a determinare.

A monte di questo è chiaro che la scelta di costruire dei bacini minerari di tali dimensioni in quel luogo (un fragile pendio montano caratterizzato dalla presenza, nota da sempre - il sito si chiamava "Pozzole"- di acque sotterranee), deputato da secoli a pascolo e agricoltura e da tempi recenti al turismo, era una scelta "sociale e politica" di rottura, condivisa in modo acritico dalle amministrazioni locali, dalle autorità politiche provinciali e dai controllori d’ufficio pubblici, così come è evidente che le imprese anteposero il massimo guadagno rispetto alle accortezze minime di sicurezza richieste a qualunque attività.

Sulla parte "produttiva" dell’ attività mineraria (estrazione e lavorazione) furono fatti investimenti adeguati e le soluzioni erano moderne e all’ avanguardia; mentre sulla gestione del residuo (elemento improduttivo, di costo) fu scaricata tutta la folle disattenzione delle aziende.

Le parole del Giudice Carlo Ancona, in una intervista del settembre 1994, sono chiarissime: "La scoperta dell’indifferenza delle scelte economiche al rispetto della vita umana è solo uno degli insegnamenti che si possono trarre dall’ analisi dei fatti. Essa esprime il primo dei limiti, il più generale: il limite al nostro sistema di sviluppo economico e culturale, basato sulla crescita quantitativa del prodotto e della indifferenziata soddisfazione di bisogni in gran parte indotti. Anche fisicamente, i rilevati di Stava esprimevano la insensatezza di una crescita proiettata all’ infinito, almeno tendenzialmente, della produzione e del consumo."

Il processo al Tribunale di Trento.

Ancona proseguiva analizzando il secondo limite emerso in quella indagine, il fatto cioè che la giustizia processuale non poteva definire le responsabilità politiche: "Nel caso di Stava fu storicamente importante la decisione di trasformare una valle alpina in pattumiera, senza per giunta alcuno studio e programma sugli effetti di tale scelta; essa era propria degli amministratori della Provincia di Trento, ed in sede penale non poteva avere rilevanza ma in concreto svolse un ruolo essenziale nella storia della miniera e dei bacini".

Le conlusioni di questa amara riflessione sono chiare: "In un ordinamento democratico, il relativo controllo non può che essere rimesso ai cittadini e quindi al corpo elettorale: ma i cittadini hanno imparato qualcosa?".

La domanda rimane aperta.

Non solo le reazioni dei giovani ingegneri sembrano inadeguate alla responsabilità e ai problemi che la storia di Stava ci consegna; ogni anno le manifestazioni e le riflessioni proposte il 19 luglio sembrano svuotate di uno dei significati più forti e più importanti. Stava accadde perché la cultura dei decisori (politici, amministratori, progettisti, responsabili) si fondava sul mito di un sistema industriale e economico ritenuto controllabile da dentro, perseguito senza reale attenzione alla sicurezza e al rispetto delle vocazioni del territorio e gestito senza partecipazione dei cittadini.

Altro elemento che Stava ci consegna è che alla base delle altre cause, vi era "una generale mancanza di vera educazione mentale al rispetto verso la natura" (parole del 1994 di Vittorio Zamai, vicepresidente dell’Ordine dei geologi del Trentino e al riconoscimento della complessità e delle interazioni fra azioni e conseguenze.

C’è poi il fatto che spesso i tecnici non dialogano con altre culture non tecniche o con la filosofia del limite e del principio di precauzione, oggi come allora. Si rifletta sul fatto che alcuni degli ingegneri di "Ingegneria senza Frontiere" sono tra gli estensori del molto discusso Studio di Impatto Ambientale sull’inceneritore dei rifiuti, studio nel quale è fondante l’approccio "di parte", ingegneristico, sordo all’idea che la realtà è più complessa che assertiva e che il rischio non cessa di esistere quando non siamo capaci di definirlo.

Rimane l’evidenza che le scelte devono essere fatte considerando l’ambiente in cui agiscono, rispettando le caratteristiche del sistema su cui hanno effetto.

Rimane infine l’urgenza di essere cittadini partecipi e la necessità che politici, professionisti, decisori aprano alla comunità i processi di decisione e scelta, per usufruire di tutte le diverse culture in grado di rendere efficiente il nostro sistema sociale.