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QT n. 16, 1 ottobre 2005 Monitor

La collezione Phillips al Mart

Mostra "popolare", in stile Marco Goldin: nomi e quadri famosissimi, tanto pubblico, un percorso leggermente pretestuoso. Qui si esplora il gusto di un collezionista miliardario, cosa che non appassiona tutti. Ma le opere esposte sono capolavori che parlano da soli.

Puntare strategicamente sul collezionismo privato (benché non solo su quello) è stata una scelta pressoché obbligata del Mart, nel momento in cui ha voluto superare i limiti locali. Da solo, il suo pur pregevole patrimonio non sarebbe bastato. Gli sviluppi di questa "politica" non erano comunque scontati, mentre oggi le esposizioni che sono in corso li dispiegano con ampiezza. La collezione permanente è stata riallestita esponendo tra l’altro al completo il deposito Giovanardi, gioiello dell’arte italiana del ‘900, e una vasta selezione della collezione VAF (forte di circa 1200 opere, anch’essa in deposito al Mart) tutta dedicata alle più importanti tendenze dell’arte italiana del ’900. Nel frattempo, è un’altra collezione privata, la Phillips Collection di Washington a costituire l’evento più atteso (un’unica altra tappa europea, al Luxembourg di Parigi). La Phillips è il primo museo d’arte moderna fondato in America, nel 1921. Qui abbiamo una scelta di 60 opere.

Van Gogh,Gli stradini (1889).

L’opera di Renoir, "manifesto" della mostra, fa leva sul collaudato effetto di richiamo che i pittori impressionisti continuano ad esercitare a livello di massa: tra Treviso e Brescia, Marco Goldin allestisce da anni "eventi" legati all’impressionismo e al post-impressionismo. Da un lato la scelta di questa mostra, e il modo di promuoverla, sembrano tenere d’occhio e dare una risposta anche a questo tipo di "concorrenza". Quando la si percorre, però, si vede che l’impressionismo non è la parte maggiore della mostra; si incontra un organismo, una rete di relazioni e di rimandi meno "semplice", che rivela la personalità, i gusti e la cultura dell’artefice della raccolta, Duncan Phillips. E anche il modo in cui i suoi punti di vista e la sua stessa formazione sono cambiati nel tempo. Non si tratta della collezione di un investitore, ma di un innamorato e di uno studioso che rivendica un giudizio autonomo (inclusa la facoltà di cambiare opinione).

Proporre il quadro di El Greco ("Il pentimento di San Pietro", 1605) e quello di Goya (stesso soggetto, 1820) in un percorso di arte moderna è per Phillips un modo di mettere in evidenza la lezione di maestri che hanno anticipato i moderni, quella sorta di espressionismo ante litteram che promana dalla deformazione emozionata di El Greco, e quella tessitura delle superfici cromatiche che fanno di Goya, nella lettura di Phillips, un precursore di Cézanne. La stessa capacità anticipatrice che vede in Chardin ("Un piatto di prugne", 1728) per la centralità degli oggetti ordinari, la composizione che fa leva sui vuoti (sappiamo in quale conto Chardin fosse tenuto da Morandi, il loro accostamento sarebbe fecondo: ma basta salire al piano di sopra). Nonostate il percorso segua un andamento cronologico, sappiamo che nella sede del museo Phillips amava fare allestimenti che rompevano le coordinate spazio-temporali, mirando "al contrasto e all’analogia" e ad esaltare gli elementi di "discendenza dagli antichi maestri che hanno anticipato idee moderne".

Il criterio-guida di Phillips non è di documentare più ampiamente possibile i movimenti dell’arte moderna (non a caso: "Art beyond isms", recita il titolo della versione inglese del catalogo) ma esaltare le individualità e i loro legami meno evidenti. Soprattutto mettere in luce gli autori capaci di trasmettere "un messaggio intimo e personale".

In uno dei suoi primi viaggi in Europa (1911), fu profondamente toccato dall’opera di Renoir (solo nel 1923 riuscirà ad assicurarsi la gemma che possiamo ammirare qui); non è dunque strano che nelle sue scelte sia la ricerca coloristica, la sua capacità di coinvolgimento emotivo, il primo fattore che considera. Una sensibilità che sfocia, ad esempio, nello spazio straordinario dato al lavoro di Bonnard nel museo di Washington: qui ne vediamo quattro esempi. Altri artisti, che cercano di andare oltre l’impressionismo, Cézanne, Van Gogh, Gauguin li capì solo più tardi, e sono qui. Per non dire della ricerca cubista, che non entrò subito in sintonia col modo di sentire di Phillips: quando ciò avvenne, fu piuttosto per la continuità di Braque che per le incessanti innovazioni di Picasso (presenti ambedue).

Non tutto, nella mostra, può quindi essere spiegato secondo criteri lineari: non solo per i "contrasti" che talvolta cercava. Incontriamo passaggi che sono il riflesso di un’evoluzione del suo gusto; altri, come il caso di Picasso, che sono forse il frutto di una mediazione tra il suo gusto e l’esigenza della collezione di avere traccia di un gigante ormai riconosciuto del ‘900. Altre scelte, come la ricca presenza di Daumier, sembrano frutto di una sorta di passione parallela per il suo contenuto satirico e sociale. Vi sono autori (Gauguin) scelti in certi esiti atipici, oppure presenti con studi e lavori preparatori (Puvis de Chavannes, Morisot, in parte Degas). Del resto, vari dipinti non sembrano far parte del livello più smagliante di un certo autore (Constable, in parte Corot). Poi, quelli che restano durevolmente nella memoria. Kandinsky e Feiniger, con la forza intima e simbolica del cromatismo, sono toccanti (Klee avrebbe avuto bisogno di migliori condizioni di visibilità). E poi un primordiale paesaggio di Courbet (1855); un "Balletto spagnolo" (1862) di Manet essenziale e ritmico come un rigo musicale; un miraggio di luce pomeridiana di Monet (1879); e almeno due dei Van Gogh, soprattutto quei giganti arborei sul viale urbano ("Gli stradini", 1889).