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QT n. 3, 11 febbraio 2006 Monitor

“L’istruttoria”

La Fondazione Teatro Due di Parma ripresenta il lavoro di Peter Weiss su Auschwitz: storie e testimonianze, ma soprattutto una discesa negli abissi dell'animo.

E’ difficile recensire un adattamento come questo. Dire che è coinvolgente, ben recitato, allestito e musicato, appare alquanto riduttivo. Non è una pièce come le altre, anzi, forse non andrebbe nemmeno vista e vissuta come una pièce, ma come un’esperienza, un rito che illumina le zone d’ombra del passato, che ci immerge nella logica aberrante dei campi di sterminio. Impariamo subito la lezione più importante: quell’odio affonda le radici in ciascuno di noi, anche se ci ostiniamo a negarlo. Ogni giorno mostriamo intolleranza verso qualcuno e, se potessimo, gli faremmo del male o almeno gli impediremmo di essere chi o ciò che è. Hitler lo fece con Ebrei, handicappati, zingari, omosessuali, oppositori politici.... ma è una follia così lucida e consolidata che potrebbe tornare realtà in molte forme, oggi o in qualunque tempo, con una facilità sconcertante. Sta a noi impedirlo, prendendo le distanze in modo netto, dicendo "no" a parole e con i fatti giorno per giorno, senza aspettare che qualcuno lo faccia per noi o che il mondo migliori nonostante noi. La compagnia Fondazione Teatro Due di Parma ci ha dato una lezione di vita, iniziati alla storia e alla doppia faccia dell’umanità.

Peter Weiss

In silenzio, percorriamo lo stretto corridoio che introduce, fra tendaggi neri, al primo ambiente. Uomini e donne, seduti di spalle, si pettinano e osservano in piccoli specchi; attorno a loro oggetti odierni e d’epoca, come in un camerino. Una voce ci prepara al prossimo tragico passo mentre, una porta si apre. Entriamo, tutto si fa confuso. Lo spazio è piccolo, la gente si accalca, si spintona mentre una donna, timbro atono e volto imperturbabile, ci invita, no, ci ordina di prendere posto in basso e non salire sulla gradinata. Siamo nel campo. I superstiti si fanno strada tra di noi, parlano, gesticolano, indicano i loro carnefici mischiati tra la folla: non siamo più un pubblico. Ammassati gli uni agli altri, i riflettori negli occhi, ci chiediamo cosa ci aspetti.

Le note di un piano. Ci dicono che ora possiamo sederci. Saliamo in platea: sulle seggiole sembriamo una giuria in un tribunale. Assistiamo inermi a iniezioni di fenolo nel cuore, cremazioni, fucilazioni; sentiamo il gas riempire la sala e non rassicura il suo odore gradevole. Poi tutto finisce, ogni testimone ha parlato. Niente applausi. Usciamo in silenzio, uno alla volta volta, così come siamo entrati, e un’attrice – se lo vogliamo – ci dona un fiore bianco per non dimenticare. Il suo sorriso, il primo, è liberatore. Nel corridoio, percorso al contrario verso l’uscita e le stelle, i tendaggi appaiono meno neri, mormorano che dalle nostre mani può nascere un mondo senza fanatismo e intolleranza. Mentre scrivo, quel fiore è ancora qui, davanti a me, per ricordarmelo.

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