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QT n. 4, 25 febbraio 2006 Monitor

S. Paolo Poli, commediante e martire

"Il ponte di San Luis Rey" visto da Poli: ovviamente dissacrante, smaliziato, financo cinico, con l'amarezza dietro l'angolo. A scapito dell'introspezione di Thornton Wilder: ma adattare è anche tradire.

Applausi e commenti sarcastici. Come sempre, Paolo Poli divide il pubblico tra chi apprezza e chi disprezza incondizionatamente: nel suo caso, con poche eccezioni, le vie di mezzo non sono contemplate. Io, invece, preferisco queste ultime, poiché non amo gli idoli, né sull’altare né nella polvere.

"Il ponte di San Luis Rey", nella versione teatrale, è un affresco di personaggi che scava poco nella psicologia. Qui, molto più che nel romanzo di Thornton Wilder, trova spazio l’analisi sociale a scapito dell’individuo: il mistero dell’uomo è guardato di sfuggita. L’azione procede non per gesti ma attraverso dialoghi dissacranti, smaliziati, persino cinici se non fosse per la leggerezza del riso che sempre li accompagna. Lo spettacolo, dunque, arricchisce, interpola il testo originario con un accumulo di citazioni filosofico-letterarie da S. Agostino a Leibniz, passando per l’immancabile Shakespeare. In una parola, lo tradisce. Eppure, nell’arte, il tradimento è spesso un nuovo orizzonte, uno specchio che riflette un autore restituendo un’immagine diversa ma a suo modo fedele.

Wilder e Poli non potrebbero avere sensibilità più diverse: tendente al mistico, all’introspettivo, al melodrammatico il primo, quanto al profano, al blasfemo, al tragicomico il secondo. Non esistono prospettive privilegiate per la vita, sono entrambe legittime; e questo adattamento di "Il ponte di San Luis Rey" risulta gradevole oltre che brillante. I nei non mancano, certo, ma si tratta di peccati veniali: alcune citazioni, ad esempio, sembrano giusto ammiccare a un pubblico discretamente colto, in grado di cogliere l’anacronismo di un Mozart e di un Collodi (nel 1714!). Anacronismo che, almeno in un’occasione, si potrebbe evitare: il nasone di Cirano, o Cyrano che dir si voglia, calza più a pennello di quello di Pinocchio, tirato in ballo per un equivoco dalla damigella della duchessa. Ma accusare il regista-attore di gratuita superficialità è fuori luogo; chi lo pensa è libero di farlo, tuttavia lo snobismo è una fastidiosa malattia (specie se chi ne è affetto è così maleducato da bisbigliare per ben due atti i propri arguti commenti).

La pièce è un buon esempio – non eccellente – di "teatro di parola" che ricorre spesso al gioco, al pamphlet, a un divertissement intelligente e solo in apparenza fine a se stesso, sebbene talvolta esasperato; e l’amarezza è sovente dietro l’angolo. Inoltre, come in ogni show di Poli, le parole indossano abiti, si mascherano, perché il loro contenuto cambia molto nel prendere una forma, un colore; il travestimento coinvolge ogni cosa, costumi e ambienti, grazie a Santuzza Calì e ai pannelli mobili, bellissimi, di Luzzati. In fondo, si dice, "la verità è nascosta in superficie".