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QT n. 3, 10 febbraio 2007 L’editoriale

Anche questa è una famiglia

Anche le coppie di fatto sono una società naturale, ivi comprese le coppie omosessuali. La Repubblica non può ignorare una realtà così vasta.

Ma perché non si sposano? Si piacciono, probabilmente anche si amano, fanno sesso e spesso mettono al mondo figli, abitano assieme ed entrambi contribuiscono con il lavoro al comune fabbisogno; non è raro il caso che acquistino la comproprietà di un appartamento, pagandone congiuntamente il prezzo. Insomma, formano quel nucleo naturale fatto di istinti, sentimenti, idee comuni e comuni interessi, prole ed inevitabili bisticci, che costituisce una vera e propria famiglia. Però non si sposano. Perché?

In qualche caso è un calcolo economico, la convenienza cioè di non perdere la pensione indiretta che uno dei due percepisce come residuo di un precedente matrimonio scioltosi con l’estinzione del coniuge. Oppure può essere il perdurare di un precedente matrimonio non ancora sciolto dal divorzio. Ma la più gran parte di cosiddette coppie di fatto è composta da giovani che escono dalla famiglia e si mettono assieme senza passare dal parroco o dall’ufficiale di stato civile. Ma perché non ambiscono, o addirittura paventano il sigillo del matrimonio? Se sono coppie dello stesso sesso la spiegazione è semplice: la legge civile e ancor più quella della Chiesa non consentono il matrimonio fra omosessuali. Ma le coppie eterosessuali conviventi solo di fatto perché sono così numerose?

Probabilmente la spiegazione sta nell’opinione che il matrimonio comporti più svantaggi che vantaggi. Per ciò che riguarda la prole il matrimonio non comporta, quanto a diritti e doveri fra genitori e figli legittimi, niente di più di quanto la legge già ora prevede per i figli naturali nati fuori dal matrimonio. Per i conviventi il matrimonio fa sorgere reciproci diritti ma bilanciati da corrispondenti doveri, mentre anche in assenza del rapporto coniugale le questioni ereditarie possono essere regolate dal testamento. In compenso la mera convivenza ha il vantaggio di poter essere interrotta senza le pastoie cartacee e giudiziarie della separazione legale e del divorzio. In questa valutazione è implicita la fondata convinzione che lo stare assieme, di fatto o in una regolare famiglia, sia una condizione positiva e benefica solo se basata su un autentico affiatamento dei due protagonisti. Senza di che il vincolo formale, derivante dal matrimonio non è affatto un rimedio efficace. Al contrario può diventare un fattore di esasperazione delle tensioni capace di produrre effetti devastanti. E per la verità ciò che apprendiamo dalle cronache sui delitti che esplodono dentro le regolari famiglie costituisce una inconfutabile conferma di questa opinione. Gli è che la famiglia di oggi non è più quella di un tempo.

Quando fu scritto l’articolo 29 della nostra Costituzione, che recita: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”, il matrimonio in voga era quello canonico, che appunto era un sacramento. L’impegno a considerarlo indissolubile non era assunto solo dai coniugi fra di loro, ma anche al cospetto di Dio. In omaggio a tale obbligo venivano consumati dentro la famiglia sacrifici immani. Il marito era il capo della famiglia e moglie e figli ne erano i sudditi. Poi è venuto il divorzio, sotto la pressione di una realtà che non sopportava più uno schema così illiberale dei rapporti.

La Chiesa tentò col referendum di ostacolare quella evoluzione. In seguito, con il diffondersi dei matrimoni civili, la Chiesa tentò di contrastarli definendo chi li contraeva come pubblici concubini. Ma il fenomeno non fu contenuto. Oggi anche in Trentino i matrimoni civili sono più numerosi di quelli religiosi. Ed è un po’ buffo sentire il cardinal Ruini che difende coloro che si sono sposati con rito civile e che ieri aveva stigmatizzato come pubblici concubini. Per accanirsi ora contro le coppie di fatto alle quali vuole negare qualsiasi riconoscimento. Anche sua eminenza pecca di “relativismo”?

Ma la Repubblica non può ignorare una realtà così vasta. Dopo tutto anche le coppie di fatto sono una società naturale, ivi comprese le coppie omosessuali. Il cemento che le tiene unite sono impulsi innati della natura umana. Nel loro esistere possono sorgere conflitti, verificarsi disparità di situazioni, accadere mutamenti non regolabili consensualmente. Da ciò la necessità dell’intervento del legislatore.

Ciò presuppone il riconoscimento formale della coppia di fatto, cioè l’accertamento delle condizioni minime perché possa ritenersi che sussista. Il timbro dell’ufficio anagrafe anziché quello dell’ufficiale di stato civile è il passaggio obbligato.

Questa diversità di uffici fa la differenza. Ma è una differenza solo formale. Ciò che conta è la sostanza: la voglia dei due di cercarsi, la capacità di capirsi e sopportarsi, il loro senso del dovere verso l’altro ed i figli, insomma la propensione ad aiutarsi a vivere. Questa è la sostanza che fa la famiglia.

Se viene meno va in crisi, ed è solo in questo caso che torna attuale il timbro dell’ufficio anagrafico o dell’ufficiale di stato civile: per registrare la fine della famiglia, e stabilire le conseguenze del suo fallimento.