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Cartelli, bandiere e referendum

A proposito del confine fra Veneto e Trentino.

Elena Tonezzer

Perchè i vicini venti si stanno mobilitando per chiedere di passare al Trentino e all’Alto Adige? La sovrastruttura politica di queste richieste parla di vicinanza geografica e storia comune, ma la realtà temo sia più prosaica e abbia in effetti a che fare con gli investimenti che il settore del turismo e dell’economia di montagna possono godere in queste parti dell’Italia. Non è qui la sede per chiedersi come mai uguale spinta non venga dall’altrettanto limitrofa regione Lombardia, e perché invece siano i comuni veneti a chiedere di abbandonare la loro secolare e produttivissima regione, nobilitata da una cultura antica, che ha dato i natali a papi, letterati, filosofi, architetti e che ospita alcune delle città più belle d’Italia, per passare al piccolo e montuoso Trentino, eterna periferia eccentrica rispetto alle capitali che l’hanno governato.

Forse il problema è dentro il Veneto e la sua classe dirigente, che prima di guardare nelle proprie difficoltà orienta il disagio verso l’esterno, Roma-ladrona qualche anno fa e il Trentino magna-a-sbafo dei nostri giorni.

Ma non è di questo che volevo scrivere, o per lo meno non direttamente. Il dibattito dei vicentini che vorrebbero diventare trentini e dei trentini che invece non li vogliono mi ha portata a riflettere sull’annoso problema del confine e dell’identità. In Veneto il problema è così vivo da essere stato istituito addirittura un assessorato dedicato all’identità, e in Trentino i progetti per definire e conservare la sfuggente identità locale si sprecano, a cominciare dal proteiforme e onnivoro "Progetto Memoria" per il Trentino. Forse ricorderete che qualche anno fa si fece dell’ironia sul costoso progetto dellaiano di porre su tutte le strade statali delle grandi bandiere laddove il suolo trentino cede il passo alle altre province. Oggi i simboli dell’Italia, dell’Europa e del Trentino garriscono al vento a marcare un passaggio che prima era segnalato soltanto da anonimi cartelli statali uguali a quelli posti in tutto il resto d’Italia. Quegli alti pennoni impediscono che il passaggio tra semplici amministrazioni locali sia invisibile e istituiscono, per quanto blandamente, un confine.

Giocare con i confini, anche quelli pacificati, contiene in sé una certa dose di pericolosità, perché provoca in chi li varca la ricerca delle differenze, tra il fuori e il dentro, e la sottolineatura delle coerenze interne ai due spazi. In altre parole, forniscono il primo passo per la costruzione delle identità distinte e potenzialmente in contrapposizione.

Tutto questo parlare dell’essere veneti e dell’essere trentini – posto che abbia un senso in due regioni a forte tasso di immigrazione e radicate in un’Europa sempre più ampia – non va accettato come "naturale" e dunque sempre esistito, perché altrimenti si finirebbe con l’alimentare un dissidio controproducente per i cittadini delle due amministrazioni, che invece di chiedere ai rispettivi rappresentanti di essere governati meglio e di risolvere il proprio evidente disagio, esercitano una banale voce di protesta.

C’era un tempo in cui i trentini non avrebbero mai posto delle bandiere per marcare una separatezza simbolica dagli altri abitanti dell’Italia. All’inizio del ‘900, al contrario, il confine che i politici trentini volevano sottolineare era piuttosto quello verso nord, grossomodo quello attuale tra le due province di Trento e Bolzano.

Le escursioni in bicicletta fornirono in quegli anni importanti occasioni per imprimere con le due ruote i confini nella terra delle strade, ma anche per varcarli e unire i trentini con i "fratelli" del Regno d’Italia. Erano occasioni che dovevano sancire il legame tra i sudditi austriaci di lingua italiana e il più grande bacino culturale e politico degli italiani del Regno.

Per le riflessioni sul carattere mutevole dei confini, è particolarmente significativo un episodio occorso nel 1908, che riguarda direttamente il vicentino. In quell’occasione la sezione del CAI cittadino prese le distanze dal Touring Club Italiano che aveva stabilito di "alzare lungo ogni strada di confine nel punto in cui entra nel territorio del Regno cartelli con la scritta Italia", non ritenendo opportuna la decisione, che il CAI considerava - scrisse il quotidiano di Vicenza - "in discordanza con lo spirito nazionale di tante altre lodevoli opere". La polemica coinvolse anche la società "Dante Alighieri" e la "Trento e Trieste" di Schio che misero nell’ordine del giorno comune che "da parte degli italiani non soggetti all’Austria nulla deve essere fatto che anche lontanamente indichi un riconoscimento dell’attuale divisione politica" e che "le targhe col nome Italia costituiscono una vera e propria consacrazione fra noi e i fratelli Trentini di una barriera materiale e morale", cosa che evidentemente gli abitanti di Schio non volevano. Nessuno di quella cittadina si iscrisse alla manifestazione organizzata dal TCI e anzi i soci della "Dante Alighieri" si impegnarono addirittura a togliere le targhe se fossero state messe. Ma non vennero poste, diversamente dalle costose bandiere della Provincia autonoma di Trento, che ornano oggi i passaggi con le varie province limitrofe a ricordare che si sta oltrepassando una linea invisibile ma ciononostante esistente.

La frontiera può avere anche una valenza di contatto, di unione dei punti che si hanno in comune. Il margine fra Trentino austriaco e Regno d’Italia è stato vissuto nei difficili anni della tensione nazionale e dell’irredentismo sia dai trentini che dai "regnicoli" come il lato debole del confine, che unisce e non contrappone, un confine in cui la prima parte della parola (con) vince sulla seconda (fine).

Del resto, che i rapporti fra trentini e vicentini all’inizio del secolo scorso fossero caratterizzati dalla ricerca di una fratellanza nazionale appare anche in occasione del convegno ciclistico del settembre 1906, quando il rappresentante della sezione di Vicenza della società "Trento e Trieste" portò il saluto agli sportivi trentini e triestini in visita nella città di Palladio, ricordando che "ne’ vostri paesi e lassù sulle Alpi e là oltre il mare voi non potete, seguendo l’impulso dei vostri cuori, cantare l’inno alla patria comune, l’Italia. Qui ora benché per poco siete liberi, innalzate pure un evviva entusiastico alla grande Italia; noi vi risponderemo con un evviva alle due vostre eroiche città di Trento e Trieste, che sono e saranno sempre le beniamine d’Italia".

Le forze innescate dalle separazioni non sono prevedibili, ma il passaggio alla contrapposizione è facile e veloce, e sarebbe un peccato che polemiche miopi portassero indietro il livello della discussione politica a contrapposizioni tra vicini di casa.

Qualche giorno fa mi sono trovata a cena con amici vicentini e – come succede sempre più spesso – ci si è trovati a discutere dei referendum che hanno coinvolto ormai numerosi paesi che hanno espresso il desiderio di "diventare trentini" e dei trentini che non li vogliono. La questione è certamente complessa ma mi ha colpito come i termini diventino di volta in volta sempre più astrattamente identitari e perdano quei connotati di problematicità concreta che invece credo li muovano originariamente. I rappresentanti veneti dovrebbero sentirsi pesantemente criticati da una base elettorale che vuole abbandonarli per farsi amministrare da trentini e friulani, e invece, al contrario, sembrano orgogliosi di aver innescato questo processo; i rappresentanti trentini, d’altro canto, dovrebbero preoccuparsi delle ragioni di un’autonomia che evidentemente non sono più così chiare come le avevano viste nel secondo dopo guerra.

All’indomani della Grande Guerra, il 7 giugno del 1919, il Veloce Club di Rovereto e la Federazione Ciclistica trentina organizzarono un’iniziativa curiosa, che riproduceva altri eventi simili che si erano succeduti negli anni precedenti negli stessi luoghi, probabilmente con le stesse persone, forse quel giorno qualcuna in meno a causa dei lutti inferti dalla recente guerra. Si trattava del "pellegrinaggio" in bicicletta ai confini che dividevano l’Impero Austro-Ungarico dal Regno d’Italia, per guardarlo e quasi toccarlo da dietro la stanga della dogana di Ala. Questa volta, ormai "redenti", i trentini si erano recati sulla ex frontiera per sancire una rinascita, quasi una palingenesi. Per gli organizzatori si trattava di "un intendimento unico per la rigenerazione fisica come un solo pensiero per la bellezza dell’idea e la forza morale di essa, nelle terre nostre segnate da un destino acerbo ma pure beneficate dallo spirito della vita nuova. A riannodare le fila, a ricongiungere gli anelli di quella catena che fu e rimane infrangibile per noi, di fede e di amore".