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Cara Nadia, a me è piaciuto…

Cara Nadia, sono lieto di scambiare con te le impressioni sullo spettacolo cui abbiamo assistito giovedì 28 febbraio, "Delta di Venere", liberamente tratto dai testi di Anaïs Nin e Henry Miller, in un adattamento drammaturgico curato e diretto da Andrea Brunello. Ritorniamo allora all’atmosfera che si avvertiva in platea, pochi minuti prima dell’inizio dello spettacolo...

Henry Miller.

Pubblico di aficionados, al Cuminetti. Si nota una forte effervescenza, diversa dal solito. Non c’è da stupirsene, si parlerà di sesso, di quello spinto, estremo... Certo, l’erotismo raccontato a teatro meno facilmente attiva la cooperazione immaginativa e sensoriale dello spettatore, di quanto non accada durante la lettura, individuale, privata, della pagina di un libro. Al Cuminetti la provocazione arriva attraverso il racconto, e il confronto tra un uomo e una donna, amanti.

Klaus Saccardo è lui, Henry, Michela Embriaco è Lei, Anaïs. Una coppia molto disinibita, almeno a parole. Nella realtà scenica i due bravi attori hanno il compito di scaldare la platea servendosi unicamente dello strumento vocale, poiché null’altro di erotico è concesso al voyeurismo del pubblico: Henry è vestito in modo abbastanza elegante, Anaïs indossa un vestito un po’ rigido, come cartaceo, ma ha calze con le giarrettiere e ogni tanto siede divaricando le gambe o accavallandole. Tra i due si avverte la mancanza di una pur finta tensione erotica, e questo è uno dei difetti dello spettacolo. Un secondo problema, probabilmente intrinseco e invalicabile, è dato dal fatto che, essendo una delle tesi del testo l’asimmetria del sentire e vivere il sesso, a svantaggio dell’uomo, le parti recitate da Saccardo sono di gran lunga più teatrali e spettacolari, dunque più godibili, di quelle espresse da Embriaco.

Provo a spiegarmi. Secondo me, in questo testo – e la delimitazione va sottolineata e tenuta sempre presente, d’ora in avanti – la figura retorica che sembra essere il perno del racconto erotico maschile è l’iperbole, mentre quella che sembra meglio corrispondere al registro narrativo femminile è la figura dell’accumulazione. Penso che l’iperbole, prediletta dal maschio, vada connessa alla sessualità maschile, così tradizionalmente (e stereotipatamente) incatenata all’immagine del fallo e alla sua funzione strumentale sempre assimilata a oggetti di carattere aggressivo e invasivo, come armi, chiavi, attrezzi... Cosicché, come intelligentemente e spiritosamente rappresentato in scena tramite una proiezione video sulla parete frontale di un cubo situato al centro del palco, l’omino si identifica nel proprio pene in erezione e si sente crescere con lui, mentre con gli occhi e la mente cerca di inseguire miriadi di fantasie che gli svolazzano intorno.

Anaïs Nin.

L’accumulazione, è invece, a mio parere, figura retorica che meglio sintetizza la percezione erotica femminile: si nutre invece di moltiplicazioni sensitive, le "mille mani", le "mille lingue che sollecitano i numerosi centri del piacere che lei è molto più abituata ad attivare, durante i rapporti sessuali. D’altronde, le zone erogene femminili sono apparentemente più numerose, e quindi sembra normale che la sua percezione sensitiva sia più efficacemente paragonabile a un impianto quadrifonico, rispetto a quella "mono" del maschio. Questo, almeno, è quanto sembra di poter evincere dallo spettacolo ideato da Brunello. Come sia la realtà, là fuori, non lo può spiegare il teatro, il quale ha il compito di far riflettere, più che di dar risposte. Peraltro, il gioco di cornici voluto dal regista confonde un poco il pubblico, quando si tratta di comprendere da quale di esse si stia lanciando la comunicazione: mentre Henry è protagonista delle storie che racconta, Anaïs racconta una storia altrui, quella di Elena e Pierre (e di Leila, Bijou, Millard).

Qui sta anche un’altra sostanziale differenza che, dal punto di vista teatrale, avvantaggia Saccardo: le storie che egli narra sono vivaci, perché può interpretarle in prima persona, con tutta la gesticolazione descrittiva o commentativa del caso, mentre a Embriaco tocca la parte più romanzesca, che, persino nei momenti più hot, non riesce del tutto a staccarsi dalla pagina del libro da cui è stata tratta, a discapito dell’attrice e del pubblico. Così, la parte "noiosa", che Henry deride spazientito, dovrebbe essere quella che richiama alla "realtà", e cioè al fatto che il maschio iperbolico, fallocentrico, sparaballe, è in fondo tanto puerile. D’altra parte, non è per caso che nella storia, nella letteratura e nella mitologia, salvo eccezioni, alle donne per far colpo basta passare per una via con svolazzo di vesti, mostrare un pezzo di pelle o una minima curva, o sorridere appena; invece agli uomini, per incantare l’altra metà del cielo, in genere tocca di farsi un mazzo così con imprese mirabolanti, stragi di nemici e di draghi, avventure rischiose. Una vitaccia.

Da qui l’abitudine all’iperbole e, per conseguenza, un’altra importante differenza nell’esperienza sessuale: nell’immaginazione maschile c’è più spesso "io a quella ci farei...", e via con le ardite e spesso violente descrizioni di penetrazioni e soffocamenti (in altre parole, variazioni sul tema dello stupro, ma... piacevole per lei). La donna – sempre secondo quel che si può evincere da questo spettacolo e dalla selezione di testi milleriani e niniani ivi esibita – ha nel suo immaginario la propria esperienza soggettiva, la percezione plurisensitiva (odori e sapori, sensazioni tattili) di ciò che le accade, che le vien fatto, piuttosto che il contrario.

Ecco dunque l’ansia da prestazione colpire lui e la conseguente necessità femminile di fingere l’orgasmo, per non deluderlo. "Povero Pierre!", esclama Henry, al saperlo frodato in tal modo da Elena. Ma in platea, qualcuno ha pensato: "Povera Elena"? E tu che ne pensi?

Un caro saluto.