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Sinistra, anno zero

Una proposta per uscire dall’impasse.

Ipse dixit: "La soluzione per il futuro consiste nel provare a produrre trasformazione, partendo da un processo collettivo e plurale di autorappresentazione politica". Parole di Paolo Cacciari, ex deputato di Rifondazione. Ma che vuol dire, si può sapere?

"La sinistra deve ripartire da una vasta opposizione sociale nel Paese, a partire dalle fabbriche". Lo afferma Gian Paolo Patta, sindacalista, ex sottosegretario del Governo Prodi bis.

Fabbriche? Ma di cosa sta parlando? In un’industria trentina con 150 dipendenti, solo per citare un caso tra i tanti, all’indomani delle elezioni molti operai hanno festeggiato i risultati portando al lavoro una torta, decorata con un grande scritta alla crema: "Grazie Silvio".

Se le risposte alla scomparsa della sinistra istituzionale sono il politichese incomprensibile o gli anacronismi di facciata possiamo concludere tranquillamente che il sipario è calato.

Eppure, il popolo della sinistra non è scomparso. Ha solo bisogno di facce rispettabili, idee concrete e linguaggio chiaro.

La Lega ha sbancato al nord perché si è rivolta alla "pancia" della gente. E Berlusconi è ancora in sella grazie agli accattivanti miraggi che riesce a vendere fin dal ’94. Non nascondiamoci dietro a un dito e affrontiamo di petto la questione.

Può permettersi la sinistra di non ascoltare le domande che provengono dalla "pancia" della popolazione e di non offrire una visione del mondo realmente nuova ed anche allettante? No. Non è più accettabile che al termine "sinistra" si associ solo l’immagine grigia di un mondo vecchio e stantìo. Cambiamo prospettiva.

E la prospettiva più concreta, per la sinistra che vuole sopravvivere e ritrovare una propria identità, è quella di contrastare il dogma della crescita economica illimitata e di denunciare l’assurdità di questo mondo, che bada soltanto all’accumulo schizofrenico di merci e denari, dicendo le cose come stanno: che vi si vive da schifo! E che, al contrario, un mondo più "magro", dove il mito del Pil, della produzione e dei consumi conta meno, è un mondo più "umano". Più felice.

Guardiamo in faccia le persone che sono convinte ossessivamente che se non si lavora, produce e consuma sempre di più, tutto va a catafascio. Riflettiamo con loro: il produttivismo che insegue un Pil sempre più grasso e bulimico vale davvero la perdita del tempo dedicato alla famiglia e alle relazioni? Vale una tensione etica e sociale legata all’irrefrenabile competizione globalizzata? Vale le mille psicopatologie da cui siamo affetti e alle quali cerchiamo di rispondere con gli psicofarmaci? Vale un mondo inquinato in cui non si riesce più a godere? Chi comincia a capire che si sta perdendo il piacere di vivere inizia a farsela sotto e qualche domanda in più, probabilmente, comincia a porsela.

Inutile ripetere che gran parte dei politici della sinistra tradizionale sono incapaci di virare con decisione verso questa proposta di "nuova sinistra". Per questo servono volti diversi, cercati in quella realtà in fermento che si manifestò per esempio nel 2001 a Genova (il riferimento è alla componente "civile" di quel movimento, e non ovviamente agli antagonismi impresentabili). E non sarebbe male che si ricominciasse a studiare: così come nel vecchio PCI si cresceva a "pane e Marx", ora si dovrebbe ragionare e interrogarsi sugli scritti di Latouche, di Langer, di Castoriadis, di Gesualdi, di Pallante. Non per diventarne gli epigoni imbecilli, ma per maturare una coscienza politica che sulla via della cosiddetta "decrescita" sappia opporre una speranza genuina a quella illusoria e patinata del modello attuale.

Se a questa sfida si crede di rispondere con gli anacronismi, con i personalismi, con i feticci dei simboli o con l’élite dei segretariati, non ci sarà davvero alcuno spazio per un altro mondo in futuro. Dovremo limitarci a correre su questo treno, osservando lo sfacelo dal finestrino. Nella speranza che alla guida ci sia un macchinista abile a farci schiantare con il minor dolore possibile.