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QT n. 2, febbraio 2010 Trentagiorni

Salute: l’ente pubblico controlla, il cittadino smentisce

“Ci si concentra su una sola sostanza, senza tener conto che è il multiresiduo ad essere indiziato come causa dei danni maggiori. E soprattutto non si includono i bambini, ovvero la fascia potenzialmente più esposta. Non mi stupirei se alla fine l’esito portasse a concludere che non c’è nulla di cui preoccuparsi”. Intervistato da QT un anno fa (vedi n°2/2009), così si esprimeva Livio Dolzani, medico di base noneso e membro del Comitato per il Diritto alla Salute in Val di Non, a proposito dello studio che da poco era stato annunciato dall’Azienda Sanitaria sull’esposizione dei residenti nonesi al clorpirifos etil, principio attivo tra i più tossici contenuto nei fitofarmaci di sintesi chimica utilizzati nella coltura delle mele.

La previsione di Dolzani è stata puntualmente confermata. “I livelli riscontrati nello studio condotto dall’Azienda Sanitaria sono da considerarsi tracce minime di prodotto che, pur testimoniando la possibilità di una contaminazione indoor, rivestono scarso o nullo significato dal punto di vista tossicologico”. Così si è espresso qualche giorno fa l’assessore provinciale all’ambiente Alberto Pacher, annunciando i risultati dell’indagine. Stessa opinione quella del dottor Alberto Betta, direttore della Direzione Igiene e Sanità Pubblica dell’Azienda Sanitaria: “Siamo bene al di sotto dei limiti di legge. In Val di Non non si muore di più rispetto ad esempio alle Giudicarie, che non è una zona così agricola”.

Sospettosi fin dall’inizio, quelli del Comitato per il Diritto alla Salute avevano nel frattempo provveduto a commissionare a loro spese ad un laboratorio fuori provincia altre analisi, col medesimo obiettivo: valutare l’esposizione dei residenti ai principi attivi dei fitofarmaci, questa volta esaminando le urine non solo di adulti, ma anche di bambini. Esito? Il clorpirifos etil è risultato presente in quantità quattro volte superiori rispetto alle analisi fatte dall’Azienda Sanitaria, e addirittura sei volte nel caso dei bambini.

A Borgo Valsugana si è ripetuta negli stessi giorni la stessa dinamica, in relazione questa volta alla presenza di diossine negli alimenti prodotti nella zona attorno all’acciaieria. “Le analisi del ciclo alimentare effettuate dall’Azienda Sanitaria sul latte e la carne degli allevamenti della zona e sulle trote di un vivaio sono tranquillizzanti perché non sono stati trovati neanche i precursori delle diossine”. È sempre Pacher a parlare. Peccato che, subito dopo, sia arrivato un gruppo di privati cittadini a far sapere che le analisi condotte da un laboratorio fuori provincia su due campioni di latte hanno evidenziato in entrambi i casi la presenza di più tipi di diossina. Di nuovo Azienda Sanitaria e Provincia clamorosamente smentite.

Ebbene, a questo punto vogliamo sapere non solo chi ha ragione, ma, prima ancora, perché mai studi scientifici aventi le medesime finalità conducano a risultati così diversi. È solo un caso che quelli istituzionali, condotti dagli enti che dovrebbero controllare sulla salute pubblica, risultino sempre tranquillizzanti e quelli privati, condotti dai cittadini, mai?

“Rileviamo la mancanza di studi prospettici ed epidemiologici specifici che abbiano monitorato dal punto di vista medico la Bassa Valsugana sulle porzioni di popolazioni a rischio”. Lo hanno scritto gli autori di uno studio sui rischi sanitari da inquinamento industriale in Valsugana che l’associazione Medici per l’Ambiente ha presentato nei giorni scorsi. E qui si pone un ulteriore, fondamentale interrogativo: come mai, al di là dei loro esiti, gli studi epidemiologici condotti dagli enti istituzionali preposti vengono effettuati solo e soltanto dopo che è già stato lanciato l’allarme, come accaduto sia in Valsugana che in Val di Non? Dove sarebbe la finalità di prevenzione che dovrebbe essere connaturata ad ogni attività epidemiologica?

“L’epidemiologia è orientata alla difesa della salute pubblica e alla prevenzione primaria e oggi più che mai, per molte ragioni (tra cui il dilagante potere del mercato, non interessato o causa prima dell’aumento complessivo della popolazione colpita da patologie sostanzialmente evitabili) sembra urgente una sistematica e corretta applicazione di questa preziosa disciplina”. Lo ha scritto un gruppo di epidemiologi su un recente numero della rivista dell’Associazione italiana di epidemiologia (www.epidemiologiaeprevenzione.it). Parole che, purtroppo, sembrano fare pienamente al caso trentino.