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Castelli & Caldonazzi, un tuffo nel passato

Non è raro percepire, in ogni regione italiana, l’esistenza di un attore in qualche modo rappresentativo della cultura e, di solito, del dialetto in cui mediamente si esprimono gli abitanti autoctoni di tale regione. Per la Valle d’Aosta, di primo acchito, non ci viene in mente nessuno, ma per la Liguria, certamente, Gilberto Govi, benché fosse nato a Genova anche Vittorio Gassman; per il Lazio la gara è tra giganti: Aldo Fabrizi, Manfredi, Sordi...; per la Campania, senza dubbio alcuno Eduardo, e poi Troisi... Insomma, con buona pace degli altri innumerevoli talenti nati in queste e nelle altre regioni, i meccanismi di identificazione regionale – spontanei o indotti – esistono e vigono, oggi come ieri. Orbene, il Trentino ha Andrea Castelli, classe 1950.

Tredici anni alla RAI, come impiegato, nel 1989 si dimette per darsi completamente alla nobile arte teatrale, nella quale già aveva mosso i primi passi all’epoca del liceo. Da allora è rimasto sempre uguale nel look, al punto che, se da giovane sembrava più anziano, adesso sembra più giovane. Il teatro gioca scherzi bizzarri.

Nonostante l’indiscutibile nomea di attore trentino per antonomasia, il Nostro sembra essere più di casa in Alto Adige che nella provincia trentina. E, data la sua infaticabile opera di attore bilingue (italiano-trentino), non si capisce come mai a Trento non si favorisca la  nascita di uno spazio stabile, in cui egli possa riversare le sue doti tecniche, sia come attore, che come autore e direttore artistico e, perché no, come insegnante. In città ci sono varie scuole di teatro, ma Castelli non ne ha una propria. Forse non gli interessa. Eppure il suo nome ormai non sfigura, scritto a fianco dei nomi storici del teatro dialettale trentino, come Emma Mazzalai, Guido Dori e Lino Lucchi, tra gli altri. Insomma, ammirandone la passione e la bravura, in scena, all’uscita del teatro Cuminetti questi interrogativi sorgono nella bacata mente dell’ingenuo critico teatrale qui scrivente.

Lo spettacolo in oggetto, scritto a quattro mani con Antonio Caldonazzi, è il collaudato "Da qui a là ci vuole 30 giorni. Storie di emigrazione", prodotto dal Teatro Stabile di Bolzano e dunque con la supervisione di Marco Bernardi, direttore dell’ente bolzanino. Castelli e Caldonazzi hanno letto, selezionato e drammatizzato alcune tra le più toccanti lettere di emigrati trentini in Brasile nella seconda metà dell’Ottocento, insieme a brani di resoconti di viaggio e di articoli a stampa relativi all’emigrazione. A far da colonna sonora, una bella scelta di musiche tradizionali, suonate dal vivo alla fisarmonica da Dante Borsetto, terzo attore in scena, e cantate ora solisticamente ora coralmente.

Lo spettacolo scorre senza che si avverta il passar del tempo e, la prima volta che si guarda l’orologio, è già passata un’ora e mezza. Gli attori sono efficaci e ben calati nella parte; si vede che il tema è di quelli che affondano le radici nelle viscere e nel cuore, poiché anche il pubblico è attento e in religioso silenzio, come se si celebrasse in scena una cerimonia di commemorazione degli antenati. Non manca qualche situazione umoristica, opportunamente inserita nel testo per allentare di tanto in tanto la tensione.

Antonio Caldonazzi è degno sodale di Castelli in scena e stupisce come la sua maschera si adatti sia a impersonare un montanaro emigrante, sia un medico in viaggio o un perfido ufficiale austriaco; e non è solo merito della sua bella barba, ma soprattutto della sua apprezzabile versatilità recitativa. Dante Borsetto, nel doppio ruolo di musicista/cantore e attore, partecipa con impegno alla riuscita dello spettacolo.
Anche se non si esce euforici dalla platea, ci si sente rinfrancati, come se il lieto fine delle storie narrate in scena fosse il florido Trentino attuale, nel quale riemergiamo, dopo un tuffo nel passato.