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Il terrore dello squilibrio

Luciano Baroni

La replica di Michele Guarda (Dio ci salvi l’America (nonostante Bush), se di replica si tratta, a Renato Ballardini (Dio ci liberi da Bush), nel numero del 5 aprile scorso, non mi muove certo perché Ballardini abbia bisogno di difensori, compito che è già egregiamente suo di professione, né perché in un momento come quello che viviamo io ritenga disdicevole la diversità delle opinioni tra coloro che pure concordano nella condanna della guerra anglo-americana. No. Ciò che mi inquieta e mi scoraggia negli atteggiamenti e nelle tesi di certa sinistra è la perseveranza dei giudizi aprioristici sulla immutabilità sostanziale della democrazia americana, ma dovrei dire piuttosto statunitense.

Una democrazia nella quale gli errori d’uno staff dirigenziale rappresenterebbero non più d’una eccezione che conferma, come si dice, la regola. Malato non sarebbe lo Stato dell’Unione, ma Bush e Powell, Rumsfeld e Condoleeza Rice, Cheney e Wolfowitz, tutti al potere grazie ad una maggioranza risicata e forse brogliesca, con una percentuale di votanti inferiore alla metà degli aventi diritto. E’ vero che il numero dei votanti non basta a fare una democrazia, ma che più della metà dei cittadini non vada a votare sarà pure la spia di un disagio, d’una disaffezione e d’un rifiuto che troncano alla base le radici della partecipazione e della passione politica su cui la democrazia fonda la propria legittimità! Il dato per cui negli USA le lobbies dell’industria energetica e bellica, ma non solo di queste, dettano direttamente o indirettamente gli indirizzi politici dei governi sarà pure un segno di decadenza dei valori a cui dovrebbe ispirarsi un regime realmente democratico, e perciò rappresentativo dei bisogni e delle aspirazioni di tutti i suoi cittadini e non solo invece degli interessi d’una minoranza ricca e potente!

Per non parlare della politica estera degli Stati Uniti che ormai da un cinquantennio, dopo l’uso dell’atomica mirato a più d’un obiettivo, identifica la salvezza e la prosperità del genere umano con l’espansione del proprio dominio. Il ruolo di gendarme del mondo, globalizzazione a parte, che gli Stati Uniti sono andati via via assumendo non è effetto ma causa sia dei colpi di stato sia dei conflitti che la penetrazione dei capitali e l’opera della cosiddetta "intelligence" statunitensi hanno scatenato e continuano ad alimentare così in Asia come nelle regioni sudamericana e caraibica. Più che una malattia, questo è un processo di degenerazione d’un sistema che minaccia di distruggere non solo l’indipendenza e l’autonomia degli altri sistemi, ma le stesse basi della propria democrazia.

Chi considera i vertici dell’attuale governo degli USA come i responsabili d’un improvviso e temporaneo tradimento della peraltro solidissima realtà democratica, farebbe bene a meditare le argomentazioni e i giudizi di tanti intellettuali americani che osano sfidare un’opinione pubblica ubriacata dai vapori della guerra preventiva. Tra loro non c’è solo Susan Sontag con la sua lucida analisi della tragedia delle Due Torri, o Noam Chomsky con la sua appassionata denuncia del nuovo imperialismo, ma docenti universitari, uomini politici, economisti e artisti. Risulta un po’ difficile classificarli fra gli anti-americani o tacciare di anti-americanismo i manifestanti no war di Los Angeles, di Washington o di Seattle!

Il fatto è che quando l’ormai lontano "equilibro del terrore " (deprecabile più per il secondo che per il primo dei suoi termini) è venuto meno per il dissolvimento dell’Unione Sovietica, ne ha preso il posto e le funzioni, in tutti i sensi, il "terrore dello squilibrio". Questo, ad onta o grazie proprio alla proliferazione delle armi di sterminio di massa, è stato e resta il motore della politica espansionista e delle ambizioni imperiali degli Stati Uniti. Di tale politica, i Bush, i Powell, i Rumsfeld e compagnia brutta figurano soltanto come gli interpreti più accesi, come gli estremi testimoni. Non tanto da loro, quanto dalla propria cieca presunzione di superiorità l’America ha bisogno di salvarsi per convivere coi mondi d’una democrazia che essa stessa, in passato, aveva contribuito solennemente ad affermare.