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La “sindrome d’Italia”

In Trentino quelle ufficiali sono tremila, ma potrebbero anche essere cinquemila. Fra i 40 e i 50 anni, provengono per lo più da Ucraina, Russia e Moldavia. Molte hanno un titolo di studio importante e alle spalle una carriera lavorativa alla quale hanno rinunciato perché, in coincidenza con l’arrivo della democrazia, nel loro paese un po’ tutto, a cominciare dall’istruzione e dalla sanità, è diventato terribilmente costoso, e se vuoi che i figli vadano all’università o si sposino, non resta che partire, perché una badante in Italia guadagna di più che un’insegnante a Kiev. Questo è quello che tutti sappiamo.

Ma ci sono altri aspetti meno noti di questa particolare immigrazione, che sono stati oggetto di un convegno (“La sindrome d’Italia, fenomeno sociale”) tenutosi a Trento a metà settembre alla Fondazione Caritro. Corriere e Trentino ne hanno parlato in maniera succinta, mentre l’Adige del 16 settembre tratta l’argomento più accuratamente, con un bel servizio di Renzo Grosselli.

A parte gli intralci burocratici che affliggono stupidamente delle persone di cui pure abbiamo tanto bisogno, l’aspetto più doloroso e nascosto della situazione delle badanti, testimoniato nel convegno, è la loro condizione esistenziale; al punto che - è stato detto - “negli ospedali psichiatrici di Ucraina e Moldavia si parla italiano”.

C’è anzitutto una vita quasi segregata, dove la socialità si riduce ad incontri settimanali con le connazionali sulle panchine di un parco pubblico o, d’inverno, in un caffè. Una vita così sacrificata rende impossibile un’integrazione, e d’altronde queste donne intendono, presto o tardi, tornare a casa. “Improvvisamente catapultate in un mondo domestico e culturalmente estraneo”, malgrado la loro vita di recluse finiscono comunque per vedere cose nuove, conoscere stili di vita diversi, altri modi di relazionarsi e paradossalmente più si familiarizzano con i nostri valori, più rischiano di sentirsi a disagio, oltre che qui, nel loro stesso paese. Dove, quando rientrano per un breve soggiorno d’estate o per le feste natalizie, devono constatare l’inevitabile allentamento dei legami familiari, la scarsa gratitudine dei figli, le ormai insopportabili pretese di un marito-padrone che per di più, in loro assenza, si è magari consolato altrove. Ne risultano “donne che hanno bisogno di ricomporre la loro storia, per poi rimettere assieme i cocci di una personalità che rischia di disintegrarsi fra depressione e scarsa autostima”.

Grosselli racconta la storia esemplare di Maria, ucraina: “Tre anni senza rientrare per non spendere. E una settimana prima di farlo, la telefonata del marito: aveva un’altra e voleva il divorzio”. Poi l’uomo, che “ha perso l’altra donna e si sente invecchiare”, vorrebbe riallacciare i rapporti, “ma probabilmente ha solo bisogno che lei gli faccia da badante. Tanto che Maria ha deciso di fermarsi in Italia ancora cinque anni. Qui, ormai, ci sono le sue poche sicurezze. Se verranno dei nipotini, forse, saranno i soli a poter rompere il circolo di questa grande frustrazione”.

Già, perché “i suoi guadagni in Italia hanno coperto i costi dello studio dei figli, ma la sua famiglia è comunque esplosa. E lei si sente colpevole, e ogni volta che torna in Ucraina - dice la psicoterapeuta Inna Ivanina - viene da noi per la terapia”

È la “sindrome d’Italia”.