Laborfonds, c’è un problema
Destinare il TFR ai fondi pensione non risolve le questioni e forse ne crea di ulteriori.
C’è qualcosa di strano nel discorso attorno alle pensioni in Italia: una combinazione di cifre aleatorie, decisioni totalmente scollegate dalle argomentazioni che le hanno precedute, ipotesi teoriche, sulla carta interessanti, che poi non trovano alcun riscontro nella realtà. È questo purtroppo il panorama desolante che si presenta a chiunque cerchi di comprendere gli ultimi 15 anni di riforme del sistema previdenziale italiano.
Una delle principali argomentazioni sostenuta dai fautori del sistema contributivo concerneva l’insostenibilità del precedente modello (retributivo) nel lungo periodo, pena un sistema previdenziale che per essere in equilibrio avrebbe richiesto le aliquote contributive (la percentuale di stipendio da dirottare al sistema pensionistico) più alte d’Europa, aggravando oltre misura il già elevato costo del lavoro del mercato italiano.
Eppure, l’avvento del sistema previdenziale complementare non si sta affatto basando su una riduzione delle aliquote (le quali rimangono del 32% per i lavoratori dipendenti e del 27% per i collaboratori a progetto), ma su un’ulteriore crescita di queste attraverso il dirottamento del TFR o, in generale, di una quota della propria retribuzione verso i fondi pensione. Nuove aliquote, quindi, a carico direttamente, del lavoratore e indirettamente anche dei datori di lavoro.
Che la scelta di prelevare il TFR dal sistema economico per trasferirlo a quello finanziario possa essere fortemente negativa per le imprese si evince chiaramente discutendo con alcuni imprenditori. Si sente che sono minacciati direttamente dalla questione: “Per noi - sottolineano - il TFR era e rimane una risorsa molto importante; in azienda è liquidità sempre disponibile, vitale soprattutto nei momenti di crisi finanziarie come queste, quando le banche chiudono i rubinetti e rendono molto più difficoltoso (e costoso) l’accesso ai prestiti. Oggi, invece, rischiamo il venir meno di risorse fondamentali per fare investimenti e tutto questo con l’obiettivo di fare regali a banche e società pronte a speculare”. E se finora il problema non si è ancora fatto sentire in maniera diffusa, lo si deve soprattutto alla lentezza dell’adesione dei lavoratori ai fondi pensione.
Si intravede una sorta di orgoglio nei discorsi degli imprenditori, ad indicare che si sentono parte di un medesimo sistema, quello economico, minacciato da soggetti - le finanziarie - che non riconoscono, che sentono estranei e lontani dal loro modo di produrre benessere.
Ci tengono a sottolineare che, al momento, da loro, anche se liberi di farlo, sono pochi i lavoratori che hanno spostato il proprio TFR verso i fondi pensione. “Perché - spiegano - anche i lavoratori hanno capito che è nel loro interesse garantire liquidità all’azienda. Vede, - rincarano non senza motivo - se questi soldi servissero per costruire nuove infrastrutture o ammodernare quelle esistenti, potrebbe anche andare bene, ma se vengono utilizzati per speculare, succede che poi le banche si rifanno nuovamente sulle imprese, per recuperare i soldi buttati, alzando il tasso di interesse per i finanziamenti che chiediamo per fare investimenti. Tutto questo non ha alcun senso”.
Il grande pasticcio
Sono molti, purtroppo, i passaggi che rimangono oscuri. Il problema di fondo è che la questione è sempre stata raccontata come faceva comodo, conteggiando nella voce previdenziale quello che non era da considerare. E non mi riferisco soltanto alla quota assistenziale (che, come ho già scritto, dovrebbe ricadere sulla fiscalità generale), ma al TFR.
1999 | 2000 | 2001 | 2002 | 2003 | 2004 | 2005 | 2006 | |
---|---|---|---|---|---|---|---|---|
Eurostat - funzioni "old age" e "survivors" | 15.3 | 15.0 | 14.9 | 15.1 | 15.4 | 15.3 | 15.4 | 15.5 |
NVSP al lordo della quota assistenziale | 13.6 | 13.2 | 13.2 | 13.4 | 13.5 | 13.5 | 13.6 | 13.6 |
NVSP al netto della quota assistenziale | 11.4 | 11.1 | 11.1 | 11.1 | 11.3 | 11.4 | 11.5 | 11.5 |
Come evidenziato all’interno del Rapporto redatto dalla Ragioneria generale dello Stato nel 2009 (“Le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario”), la criticità del sistema previdenziale italiano varia a seconda delle voci che vengono considerate al proprio interno. La diatriba, all’interno della pubblicazione, nasceva dalla critica mossa dalla Ragioneria dello Stato nei confronti dei calcoli fatti da Eurostat (il servizio di statistica della Comunità Europea), “reo” di inserire impropriamente voci come il TFR che distorcevano in termini negativi il reale rapporto della spesa pensionistica sul PIL.
Rifacendosi invece al dato fornito dal Nucleo di Valutazione della Spesa Previdenziale (NVSP), risulta in tutta evidenza come il reale impatto della spesa sul PIL sia nettamente più contenuto (fermo dalla fine degli anni ‘90 all’11% della ricchezza prodotta) e solo di poco superiore alla spesa degli altri principali paesi europei. Ovviamente, i fautori della riforma pensionistica hanno sempre fatto riferimento ai dati peggiori che includevano la voce del TFR.
Curiosamente, quindi, la recente riforma della previdenza complementare del 2007 ha avuto come risultato quello di peggiorare ulteriormente i conti, rendendo obbligatorio il conteggio del TFR (soltanto da quel momento voce prettamente previdenziale) nella spesa totale. Risultato: la sottrazione di ulteriori risorse al sistema economico, con conseguente nuovo incremento del costo del lavoro. L’esatto opposto di quello che si voleva fare.
Le criticità appena presentate non devono però nascondere la necessità di creare una pensione che compensi le sempre più contenute pensioni pubbliche. Ma se si vuole creare un nuovo sistema obbligatorio complementare (se non de jure, de facto, per avere una pensione decente), non ci si può basare su un meccanismo incerto come la finanza, ma diventa necessario individuare nuove strategie che garantiscano rendimenti sicuri.
In questo, anche il TFR lasciato in azienda (con gli attuali meccanismi di rivalutazione) rischia di non funzionare. Se l’inflazione dovesse salire al 4% (valore altamente plausibile, se l’Europa decidesse di cedere alla pressione di molti degli Stati che la compongono di allentare la propria politica di contenimento dell’inflazione), il rendimento del TFR sarebbe praticamente nullo.
Nel lungo periodo potrebbe convenire quindi la destinazione di questa voce del reddito ai fondi pensione, ma non tanto per i rendimenti garantiti da questi (che, come mostra la tabella sotto, nel medio periodo rimangono molto contenuti e di poco superiori all’inflazione), quanto per i vantaggi fiscali di cui è possibile godere nel caso si scelga questa strategia.
Quota di azioni | 2006-2010 | 2001-2010 | |
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Linea Bilanciata | 35 | 1.85 | 2.79 |
Occorre precisare un aspetto fondamentale, normalmente pubblicizzato dopo che il lavoratore ha destinato (per legge, in modo irrevocabile) il proprio TFR ad un fondo pensione: questa parte di stipendio non è per nulla deducibile; solo i versamenti volontari possono essere deducibili dal reddito complessivo per un massimo di 5.164 euro.
I vantaggi, pertanto, sono solo di natura fiscale e, per di più, solo per la parte di TFR maturata dopo il 1° gennaio 2007. Le agevolazioni, quindi, sono significative solo per quei soggetti che hanno iniziato a lavorare da pochi anni.
Come confermato durante un recente dibattito che si è tenuto a Bolzano, durante il quale si sono affrontati Alberto Filippi (già dirigente della filiale bolzanina di un’importante banca nazionale e autore del servizio apparso su QT di luglio (“Laborfonds, la grande illusione”), e Giorgio Valzolgher (direttore di Laborfonds), per il lavoratore i vantaggi di una pensione complementare sono molto contenuti (senza dimenticare la quota di rischio sempre presente), e per di più resi possibili solamente drogando il meccanismo attraverso agevolazioni fiscali.
Cosa era meglio fare
A questo punto, rimane da chiedersi a cosa sia servito attivare questo programma. Sarebbe stato molto più utile, in primo luogo, rivedere gli attuali meccanismi di rivalutazione del TFR, favorendo fiscalmente le aziende per quel poco che serviva a permettere una rivalutazione certa del TFR del 90/100% dell’inflazione, oltre al rendimento dell’1,5% già previsto (attualmente il TFR viene rivalutato solamente per il 75% dell’inflazione, redendolo uno strumento inutile in caso di inflazione alta).
In secondo luogo, come proposto dal prof. Cerea all’interno dell’articolo del numero scorso di QT, creare un fondo (con un rendimento garantito pari a quello del TFR riformato, aggiungiamo noi) di previdenza complementare da attivare dalla nascita. Garantendo la deducibilità dei contributi volontari versati da genitori e nonni (oltre che dal lavoratore stesso), si genererebbe un meccanismo di trasmissione delle risorse tra generazioni di vitale importanza in Italia, e si garantirebbe una pensione complementare a tutti quei soggetti che, non avendo una carriera lavorativa continuativa, non potrebbero godere di alcun TFR significativo.