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QT n. 9, settembre 2012 Servizi

Non è un paese per ragazzi

1960: a Trento arriva la medaglia d’oro olimpica Livio Berruti. Una storia di liceali: sport, primi amori, e il tradimento degli adulti.

Roma, 1960. Le Olimpiadi del riscatto, l’Italietta del miracolo economico che - dopo la guerra, il fascismo, la povertà - tornava sulla scena mondiale, in un misto di orgoglio e di timidezza: “Che figura faremo? Cosa diranno gli stranieri?”. E a illuminare la scena, a dar lustro al gruzzolo di medaglie nei soliti sport altrimenti negletti (scherma, canottaggio, tiro a segno...) vennero i 200 metri di Livio Berruti: record olimpico, record mondiale, medaglia d’oro nella specialità regina. Un timido giovane con gli occhiali da secchione divenne l’eroe nazionale.

Alcuni mesi dopo “Meeting di atletica allo Stadio Briamasco. Correrà Livio Berruti”.

Come, Berruti a Trento? A Trento, 60.000 abitanti scarsi, l’ultima periferia, un buco tra le montagne? Sì, Berruti a Trento. Correrà solo la staffetta 4x100, ma correrà. L’evento dell’anno.

Allo stadio con le ragazze

“Ho due biglietti per lo stadio - mi disse Renzo - Anzi, ne ho quattro: vengono anche due ragazze”. Strabuzzai gli occhi: avevo 16 anni, Renzo uno in più, eravamo tutti e due studiosi, bravi a scuola, ma con le ragazze... Renzo mi spiegò: aveva naturalmente invitato la “sua ragazza” (come la chiamava lui, in realtà erano solo usciti assieme una-due volte, ma Renzo era un ottimista, e comunque l’importante è avere le idee chiare) e con lei veniva un’amica. Ottimo.

“Che scuola fanno queste due?” ci chiese la premiata ditta Buffi & Mazzoldi, ossia il gatto e la volpe. Intendiamoci, Buffi & Mazzoldi, nostri compagni di classe, erano onesti, ed amici, ma anche più smaliziati di noi. Il mondo lo vedevano da un altro punto di vista. Brillanti, sia il bel Mazzoldi ma anche il brutto Buffi con le donne avevano entrambi due-tre marce in più di noi, due imbranati; invece era la società di quegli anni e la Trento bigotta che gli stava stretta, e anche la scuola dove, a differenza di noi, arrancavano. Dei contestatori ante litteram, ce l’avevano in particolare con la religione: non solo con i preti, ma con la stessa idea di Dio (“la più stupida che all’uomo sia venuta in testa”): e il loro rifiuto lo esplicitavano nella bestemmia, insistita ed esibita non come inciampo lessicale, ma come posizione filosofica e provocazione sociale. Ricordo l’icastico commento di Mazzoldi a una qualche dolorosa catastrofe: “È tutta colpa del porco dio”.

“Che scuola fanno?” ci avevano chiesto.

“La terza media” rispose Renzo, con velato imbarazzo.

“Ma, ragazzi - e il tono non era ironico, ma vagamente preoccupato - cosa state facendo?”

“Calma, hanno quindici anni, quasi sedici” mi affrettai a precisare.

“Allora - e i due, sollevati, si guardarono ammiccanti, parlando con una voce sola - allora sì che sono intelligenti!”

Li lasciammo dire, era il loro turno di vedere l’uva acerba. Intanto noi allo stadio ci andavamo con le ragazze.

Un impegno gravoso

E venne il gran giorno. Il Briamasco pieno, tribune e gradinate. Le ragazze erano carine e simpatiche. Renzo, dell’ATA Battisti, società organizzatrice, aveva procurato 4 biglietti in tribuna coperta. Era il suo giorno: spiegava alcuni tecnicismi, additava particolari che al profano sfuggivano, senza strafare, senza fare il saccente; il tempo scorreva via piacevole, ero contento per lui e anche per noi. Buffi & Mazzoldi stazionavano due gradoni più in alto.

Poi la svolta. Arrivò un altro liceale, due-tre anni più grande di noi, la tuta blu scuro con su scritto grande ATA Battisti, il tono deciso: “Renzo, devi correre la staffetta. Tizio non è venuto, ha una colica, Caio non lo troviamo, siamo in tre, non sappiamo cosa fare. Devi rimediare tu.”

“Io?? - questa proprio non se la aspettava - Ma se non sono un velocista, i cento metri non li ho mai corsi...”

“Ma sei un atleta. Poi nella staffetta conta la squadra. E abbiamo bisogno di te”.

Renzo obiettò ancora, sempre più debolmente, di fronte all’altro che insisteva, e infine si arrese: “Beh, se proprio proprio c’è bisogno...”.

“Vieni subito, devi prepararti”.

Renzo allargò le braccia, si scusò, ci salutò; ma sotto sotto non era dispiaciuto, sperava di far colpo, di passare da spettatore a protagonista agli occhi della ragazza che voleva conquistare. Gli sorridemmo, facendogli gli auguri, di cuore, mentre l’altro lo portava via.

L’umiliazione

Livio Berruti (il secondo da sinistra) a Trento nel 1960 con alcuni giovani atleti. Renzo è il terzo da sinistra, dietro la spalla di Berruti.

Rimasi solo con le due ragazze, ma la natura non prevede il vuoto. Buffi & Mazzoldi discesero i gradoni e si unirono a noi. Non come avvoltoi: discreti, simpatici: tutti e cinque stavamo bene assieme.

All’intervallo tra una corsa e l’altra andammo a trovare Renzo: in un praticello a fianco dello stadio, correva e sudava come un cavallo. Quando ci vide festanti, lo sguardo gli si velò: avrebbe preferito il pomeriggio con noi, con lei; e ai nostri reiterati incoraggiamenti rispose con un sorriso incerto. Renzo era un buono. Per questo mi infastidirono, nel tornare in tribuna, i vaghi messaggi di Buffi & Mazzoldi: nessuna parola di fronte alle ragazze, ma un alzar di sopracciglia, una mezza smorfia, un leggero scuotimento di testa, a comunicare che l’avventura di Renzo gli pareva una grossa fesseria. Mi sembrarono ingenerosi.

Alle sette di sera, in chiusura, finalmente il momento clou: la staffetta, Livio Berruti, l’eroe nazionale. Quando entrò in campo, tranquillo, dimesso, un’ovazione scosse lo stadio. Tutti gli occhi su di lui. Correva in prima frazione. Anche Renzo - guarda caso - correva la prima frazione. Era nella corsia 1. E Renzo - altro caso? - nella corsia 2.

La corsia 1, la più interna, prevede un percorso più breve; per questo inizia più arretrata, di circa otto metri, rispetto alla 2, e questa rispetto alla 3 e così via. Il risultato è che se si concentra l’attenzione su un atleta, il punto di riferimento è quello più avanti, nella corsia esterna più vicina. Insomma, la corsa più attesa era un confronto a due: Berruti contro Renzo. Improponibile.

Berruti infatti non solo era recordman mondiale, era anche specialista nella corsa in curva, particolarmente difficile perchè si deve scaricare la potenza in maniera asimmetrica, e in questo la sua leggerezza e coordinazione prevalevano su tutti gli altri specialisti del mondo. Insomma, in quel gesto atletico, rappresentava la massima espressione che il genere umano aveva fino allora prodotto. Renzo invece era un ragazzo, non aveva ancora la muscolatura di un velocista; non correva i cento metri; e anche nella sua specialità, il mezzofondo, sarebbe sempre stato solo un volenteroso, encomiabile rincalzo (“Come vai in atletica?” gli avrei chiesto alcuni anni dopo, quando l’università ci aveva separati. “Mi accontento; negli 800, se fossi una donna, sarei tra le migliori in Italia”). In poche parole, non ci potevano essere confronti. Ma i 3000 del Briamasco, l’attenzione tutta su Berruti e un occhio su Renzo, il confronto stavano per farlo.

Fu un disastro. Al colpo di pistola Berruti scattò da professionista e ingranò la progressione in curva: se avesse corso nello stesso tempo di Renzo, avrebbe dovuto recuperargli quattro degli otto metri di vantaggio; li recuperò subito tutti otto, gliene aggiunse altrettanti, e altrettanti ancora, e poi ancora; sembravano di due specie diverse, oppure uno in moto, l’altro a ciabattare con gli infradito. I tremila del Briamasco ebbero tutti la stessa reazione: esplosero in una sonora, travolgente, inarrestabile risata. Non interessava più la bravura del campione, ma la dabbenaggine del suo avversario; il commento non era “Che forte Berruti!” bensì “Che pirla quello sfigato”.

Anche noi avemmo la stessa reazione. Anch’io risi. Mazzoldi esplose: “È un mona! L’ho sempre detto - e si mise a scandire - Renzo è un mo-na!” Poi il tono, pur sempre incazzato, si fece accorato: “Ma come si fa? Ma come si fa?” La ragazza non disse niente; ma il labbro superiore le si increspò sprezzante. La loro storia, non ancora iniziata, era finita.

Negli spogliatoi, in dieci, venti, trenta, tutti derisero Renzo. Prese in giro, battutacce, senza pietà. Renzo, troppo giovane e troppo buono, subì. Fino a che uno, particolarmente maramaldo, non pronunciò, beffardo, qualche parola di troppo: Renzo, seduto su un tavolaccio, balzò giù, gli strinse le mani al collo, lo sbattè contro il muro: “Adesso BASTA!”

Cinquant’anni dopo

Allora, a differenza di Buffi & Mazzoldi, come fossero andate le cose, non l’avevo capito. Solo anni dopo, ripensandoci, mi si è chiarito tutto. I velocisti dell’Ata Battisti, saputo che dovevano correre contro Berruti, avevano battuto in ritirata. E avevano recuperato il ragazzino, mandandolo allo sbaraglio. Per non fare una brutta figura loro, esposero il ragazzo al ridicolo. Salvo poi prenderlo in giro.

Oggi, a ripensarci, mi si torcono le budella. Ci fosse la macchina del tempo! Se potessi, con la consapevolezza di oggi, tornare a quel momento! Mi basterebbe il dopo gara, scendere negli spogliatoi, abbracciare Renzo e dire a quei vigliacchi cosa penso di loro. O ancora meglio: coinvolgere non le ragazze, non era possibile, ma Buffi e Mazzoldi. Loro che avevano capito, e che la loro indignazione potevano indirizzarla meglio che nell’imprecazione o nella bestemmia. La rivolta dei ragazzini: tutti negli spogliatoi, a stringerci attorno a Renzo e sbugiardare quelle quattro merde!

Ma la macchina del tempo non esiste. E i ragazzini smaliziati sono troppo scettici per reagire, quelli idealisti troppo ingenui per capire. Così gli adulti ne approfittano, e la fanno franca. Non è un paese per ragazzi.

Però la scrittura può essere una piccola macchina del tempo. E questo articolo un atto di postuma riparazione.

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