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QT n. 11, novembre 2014 L’editoriale

Un quadro desolante

la redazione
Giunta Rossi

È passato un anno dalle ultime elezioni in Trentino e il quadro politico è desolante. Incertezza, mancanza di strategia, dispotismo. Probabilmente Ugo Rossi non pensava di ritrovarsi presidente della Provincia. È arrivato impreparato, ripetendo poi vecchie logiche, proponendo soluzioni arretrate, cercando di innovare, ma in maniera confusa e contraddittoria. Comportandosi come il primo della classe senza avere né carisma popolare né autorità politica. Circondandosi dei soliti noti. Concretamente questo quadro si è tradotto nelle operazioni che abbiamo raccontato in questi mesi.

La clamorosa pervicacia con cui ha voluto (e vuole) regalare 10 milioni alla LaVis, azienda decotta e senza futuro, e per di più con un management recidivo nei comportamenti, ai bordi o fuori della legalità. Ma poi ancora lo sciagurato spostamento della biblioteca universitaria alle Albere e i (per ora timidi) tentativi di regalare ancora altri soldi alla fallimentare speculazione. E una cultura vecchissima dello sfruttamento turistico, per cui l’orso va cacciato, introdotte le motoslitte, finanziati mega-resort di lusso in aree vergini, sulla falsariga dei vetusti fallimenti di Fassalaurina, questa volta con l’attesa messianica dei soldi dei mafiosi dell’Est Europa da noi in vacanza. Si prosegue con le nomine dei fedelissimi nei posti chiave, in barba al merito, all’efficienza e alla legge voluta (ma non difesa) dal Pd. Si tocca il fondo, rivelando la vera cifra culturale del Presidente, con lo strisciante smantellamento del sistema della ricerca, cresciuto disordinatamente con Dellai ed ora non razionalizzato, ma delegittimato attraverso le sostituzioni di vertici prestigiosi in campo scientifico con ragazzi di bottega, naturalmente di area Patt. Insomma, una versione greve della vetusta cultura della clientela.

Adesso anche i giornali locali se ne accorgono. Pure la nave ammiraglia, L’Adige, sembra aver scaricato Rossi. Ed ecco rispuntare Dellai. Molti auspicherebbero il suo ritorno: tanto, nella sostanza, non è cambiato nulla. Ha ragione Alessandro Olivi: è inutile parlare di continuità o discontinuità. È vero, sono discorsi inutili. Tutto rimane come prima.

E il Partito Democratico? Subalterno, silente, inesistente. Al massimo cane che abbaia senza mordere. In un partito dove ci stanno dentro tutti perché non imbarcare Dellai? Se Matteo Renzi continua a mantenere il proprio consenso, Dellai approderà sicuramente alle sponde democratiche.

In questa debolezza intrinseca del partito che ci riporta ai tempi del primo Dellai (ricordiamo quando la sinistra lo chiamava “il nostro leader”) si innesta il plateale “commissariamento” dell’assessora Borgonovo Re da parte del presidente Rossi. L’esautoramento della titolare alla sanità si è esplicato in un uno-due probabilmente pianificato: un giorno, tornando da Roma, Rossi ordina al telefono la sospensione della discussione in Giunta sulla riforma della sanità presentata da Borgonovo; il giorno dopo è lo stesso Rossi che parla di sanità, annunciando tagli e ticket. Donata, precisa e puntigliosa, forse troppo precisa e puntigliosa, non fa che incassare. Non riesce a far valere il proprio grande consenso elettorale, anche perché nel partito non ha nessuno, nessuno vuole esporsi, e la sua condotta solitaria non l’ha aiutata. Situazione speculare per Sara Ferrari: ha dietro il partito, ma non ha un significativo consenso personale. E il risultato è identico: è Ugo Rossi che annuncia i “cambiamenti” del settore della ricerca e l’assessora incassa.

Non ci siamo. Qualcuno si era illuso che il PD fosse cambiato. Ma invece niente. Dilaniato come al solito in diatribe interne, già lanciato nelle questioni delle elezioni comunali, abbozza, grida, poi... Il difetto sta nel manico: in un partito in cui i vertici selezionano (a dispetto delle primarie) i propri simili, chi fa politica per far carriera, e in cui si ritiene che il miglior viatico al successo sia non scontentare alcun potentato, in pratica fare il meno possibile. È la cultura politica impersonata al meglio (si fa per dire) da Alberto Pacher, e che sopravvive alla sua rottamazione. E così ci si accontenta. Di che cosa? Delle briciole del sottogoverno. Come ai tempi peggiori di Dellai.