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QT n. 3, marzo 2015 Cover story

PD: posti riservati al nulla

Le vicende del PD trentino evidenziano un’amara realtà: zero contenuti, priorità alle poltrone e paura di perderle. Il risultato è un partito rissoso e soprattutto inutile.

Maionese impazzita. Manicomio. Ring. Non si sa più che definizione dare al PD trentino. Le ultime vicende hanno segnato il crollo definitivo di quella parvenza di partito a cui ormai era ridotta la prima forza politica della coalizione del centro sinistra autonomista che guida la Provincia. Neppure gli addetti ai lavori e i più fanatici retroscenisti dei giochetti di Palazzo riescono a dare spiegazioni logiche a quanto accaduto. Così si azzardano complessi disegni destabilizzanti operati nell’ombra, si bisbigliano inconfessabili patti segreti o, addirittura, tutto viene rubricato nella categoria dei “problemi personali”. E allora si parla di nevrosi, isteria, depressione, esaurimento fisico e psicologico.

Cose che capitano, si dirà. Ma quando ci si riferisce a un organismo collettivo come un partito che dovrebbe creare la classe dirigente per il governo di una comunità, pensiamo che gli aspetti riguardanti la salute mentale del singolo vadano messi tra parentesi. L’analisi politica dovrebbe prescindere dai problemi esistenziali personali, troppo spesso utilizzati in maniera subdola per screditare l’avversario. Andando avanti così una democrazia muore. E qualsiasi progetto collettivo va a farsi benedire.

Abbiamo fatto questa lunga premessa perché nel PD trentino veramente il clima sta diventando patologico. Vedremo però qual è la vera malattia mortale che sta portando alla rovina i democratici.

Riepiloghiamo brevemente i fatti. Ancora una volta l’epicentro è Rovereto. Da mesi una faida interna al partito voleva silurare la ricandidatura del sindaco uscente Andrea Miorandi. L’accusa? “Non aver fatto niente per la città”. Un’affermazione un po’ troppo generica, soprattutto perché proveniva da quanti, in giunta e fuori, avevano condiviso le scelte amministrative del sindaco. Così comincia a rimbalzare una ridda di voci: Giulia Robol, assessora all’urbanistica a Rovereto e segretaria del PD provinciale, vorrebbe rimpiazzare il sindaco. Con chi? Con se stessa, o magari con il vice presidente della Provincia Olivi. Un disegno spalleggiato anche dall’UPT roveretana, anch’essa in confusione, ma determinata - così sembrava - a mollare Miorandi.

Inutile annoiare il lettore con la cronaca delle interviste, delle contro interviste, delle riunioni più o meno clandestine, delle battaglie tra i “fratelli coltelli”, dei tavoli, delle ipotesi barocche, degli ultimatum sempre prorogati, delle minacce e degli insulti... Inutile sottolineare l’assenza totale di contenuti.

Due sole date. Il 28 gennaio, dopo una riunione fiume della coalizione roveretana, l’UPT - strenua oppositrice alla candidatura di Miorandi - cambia le carte in tavola e per “senso di responsabilità” sosterrà il sindaco uscente senza dover passare per le primarie. Il PD tira un sospiro di sollievo. Il commento di Giulia Robol: “Una serata difficile, ma mi fa piacere che ci sia stata la chiusura del cerchio. Non volevamo lo strappo. Dal punto di vista politico è un risultato importante. Ma stigmatizzo l’assenza del capogruppo provinciale e del segretario locale Lorandi, che non hanno voluto sottoporsi al confronto. E mi fa piacere che, nonostante tutto, siamo riusciti a portare a casa il risultato pieno. Importante per il PD del Trentino e per la coalizione di Rovereto”. Si capisce tra le righe che la guerra interna tra Robol - Olivi da una parte e Lorandi - Manica (capogruppo in Provincia) dall’altra sarebbe continuata.

Ed ecco il colpo di scena. 14 febbraio: Giulia Robol lancia la propria candidatura a sindaco di Rovereto. Ma come? Non era tutto a posto? Cosa è successo in due settimane? Sicuramente nulla di quello che interessa al cittadino normale. Cosa avvenga nelle catacombe PD non è dato saperlo. In un’intervista Robol cerca di spiegare l’inspiegabile: il suo gesto vuole “riappacificare la città” (!), vuole essere “motivo di aggregazione di tutte le forze di centro sinistra” (?), per rilanciare il PD roveretano e provinciale.

Nella mia memoria non riesco a ritrovare un episodio simile. E infatti le reazioni immediate dagli ambienti PD sono state tutte su questa falsa riga: “Giulia è impazzita”. I più benevoli sussurravano: “Sai, bisogna capire, Giulia è giovane, è una donna e ha pure due figli piccoli! Però, intendiamoci, anche lei si è accorta di aver sbagliato...”. Ai confini della realtà.

Ovviamente chi è impazzito per davvero è il PD nel suo insieme. Robol voleva sparigliare e c’è riuscita, mandando in frantumi un partito già in pezzi. Adesso siamo ancora a metà del guado, con ipotesi contraddittorie che comunque non cambieranno una situazione sedimentata da anni. Il “sovietico” modo di insinuare chissà quali problemi personali serve solo a sviare l’attenzione dalle questioni di fondo. Non è colpa di qualcuno se il partito diventa esclusivamente il mezzo per essere più vicini al potere. Ci si impegna nel PD solo per entrare nelle cordate giuste che consentiranno poi di accedere ai luoghi veri della decisione e della gestione dei soldi, cioè le istituzioni pubbliche. Nient’altro conta. Le idee, strombazzate ai quattro venti per imbonire elettori distratti o militanti idealisti (sempre meno, comunque), scompaiono. I contenuti concreti sono delegati agli organi esecutivi. Il problema è come diventare assessore, sindaco, consigliere provinciale. Siamo sempre alle gare per determinare la griglia di partenza del gran premio: bisogna assolutamente sopravanzare l’avversario (che è sempre il compagno di partito) di una posizione per essere avvantaggiati al momento della partenza. Ovviamente è lecito sabotare la vettura dell’avversario, bucandogli la gomma, rubandogli la benzina. Non importa nulla se la scuderia (o la ditta, per dirla con Bersani) va alla malora, l’importante è arrivare primi al traguardo. I partiti dunque servono esclusivamente per decidere la vicinanza o meno alle “careghe”.

Guardando il PD trentino, la situazione è ancora peggiore, perché si fa di tutto per ricoprire posizioni di sottogoverno, dove si gestisce qualche milioncino, si possono accontentare gli amici e comprarsi i voti per la prossima elezione, ma dove concretamente non si prende nessuna responsabilità. Nel quindicennio dellaiano questa è stata la strategia, perfettamente concretizzata dalla figura di Alberto Pacher. Il suo ruolo di vice presidente della Giunta è stato senza sbavature: non fare nulla, sostenere Dellai, mai parlare di contenuti, fare interviste fumose e inconcludenti, per poi lasciare il campo senza adeguate spiegazioni.

Ma tutto il PD è così, tutta la sinistra trentina degli ultimi anni è stata così: da Albergoni a Pinter, da Dorigatti a Olivi. Le eccezioni ci sono state, ma sono finite, bistrattate, nell’angolo. Così i vari Bondi e Passerini vennero tacciati di andare contro “la coalizione”. Se poi esponenti PD raggiungono posizioni apicali, la sostanza non cambia: non si fa nulla, si ascoltano le sirene dei poteri forti.

Ciò accade anche oggi. Mentre assessori come Borgonovo Re vengono isolati, la battaglia vera è sempre quella: come mantenere il potere rimanendo in seconda fila. Di qui la ridicola rincorsa ai nuovi (vecchissimi!) progetti politici di Dellai, considerato dalla schiera degli orfani PD come il “nostro leader”. In realtà il Dellai sta rincorrendo il PD perché ha visto che Renzi è ancora in sella ed ogni progetto centrista è destinato a fallire. Il protagonismo di Dellai ha mandato il partito nel panico, ma ha dato una nuova speranza ai reduci di tante battaglie, ora pronti a tornare in armi: la lista dei veterani è quella che ha lanciato la nuova (vecchissima!) associazione di cultura politica “Territoriali europei”, l’ultimo ircocervo inventato da Dellai. Utile per portare l’ex presidente della Provincia alla corte di Renzi, e capace di mandare in panico l’intero PD trentino.

L’esito di questo nefasto andazzo (mancanza di contenuti, ricerca delle cariche, posizione subalterna), che dura da anni, si manifesta nell’inutilità del PD per il Trentino. Ci si è abituati a tutto. Nulla si è portato a casa. Nessun provvedimento concreto, nessun vessillo da sbandierare - vedi i fallimenti delle leggi sulle quote rosa e l’omofobia. Se però si mettono con le spalle al muro i dirigenti, le scuse per svicolare si trovano sempre: Dellai cattivo e cinico (ma sempre il “caro leader”); le battaglie interne (ma saranno le ultime!); l’ostruzionismo; il bene della coalizione... Il non detto è sempre quello: stare ancorati al potere. Viene da chiedersi se tutti i partiti sono così, se c’è qualcosa di veramente pericoloso per la tenuta democratica. Dato che non esiste più nessuno che controlla e dà indicazioni agli organi esecutivi, davvero il potere pubblico è assoluto, cioè sciolto da qualsiasi legame, privo di pesi e contrappesi, impossibile da raggiungere, se non attraverso le cordate di interesse e le amicizie non sempre trasparenti.

Il marasma PD: come e perchè

Le recenti grottesche vicissitudini del PD trentino non sono solo gravi in sé, ma in quanto effetto di una più generale sottocultura. Per la quale l’organizzazione politica risulta un’associazione dedita alla promozione sociale dei suoi iscritti attraverso l’occupazione di posti pubblici. In un partito così configurato, viene escluso ogni elemento programmatico, ogni idea di governo, contano solo le alleanze, esterne e soprattutto interne, per arrivare alla poltrona.

Beninteso, ogni due anni magari si fa una due giorni programmatica, ma in cui si passa l’aria tra i denti: mai si affronta l’argomento tabù, come si è governato. Infatti sul sindaco Miorandi nessuno parla di cosa abbia fatto per Rovereto, né di Andreatta per Trento, meno che mai di Olivi per Folgaria, o di Dellai per la Provincia nel suo “quindicennio perduto”. Parlare di atti di governo, e magari criticarli, significa essere “divisivi”, introdurre nel gioco delle alleanze elementi incongrui, estranei, tipo il comportamento sessuale del coniuge, di cui magari si chiacchiera sottovoce, ma che devono assolutamente rimanere fuori dal dibattito politico. E chi non si adegua, viene prima stigmatizzato e poi emarginato.

Questa dinamica è figlia del tramonto delle ideologie e della loro sostituzione con il carrierismo individuale. E a sua volta genera una clamorosa inadeguatezza al governo.

Per capire se il nostro ragionamento è realistico, ci siamo rivolti a Francesco Palermo, costituzionalista e ora senatore eletto tra le fila dell’alleanza PD-SVP nel collegio di Bolzano Bassa Atesina e a Mario Diani, professore di scienze politiche all’Università di Trento.

Francesco Palermo

Francesco Palermo

La mia opinione è ancora più negativa, non tanto in merito al PD trentino, di cui conosco poco o niente, ma all’insieme della società. Perchè la realtà che conosco, il mondo universitario, è esattamente la stessa cosa, tutto uno scontro di cordate per arrivare alla gestione del potere, né si può mai mettere in discussione l’operato dei vertici. Così ci si appiattisce su una mediocre gestione del potere, senza nessun progetto. È un discorso complessivo che riguarda la società, incapace di vedere le proprie pecche; e sarebbe auto-assolutorio vedere solo quelle della politica. Non è che i partiti sono pessimi e la società perfetta, basta cambiare il leader che promette cose miracolose; poi naturalmente non cambia niente. È la nostra società che funziona così.

Veramente all’università di Trento, all’elezione del nuovo rettore, il dibattito è risultato incentrato su continuità/discontinuità rispetto alla precedente gestione.

Non conosco la realtà trentina. Il mio discorso è generale. In politica si promette la discontinuità, si deve prometterla, perché la gente è scontenta, ma poi ci si trova a fare più o meno le stesse cose di prima.

Eppure nel dibattito nazionale si parla molto meno che in Trentino di alleanze, e più di temi concreti: Job act, giustizia, immigrazione...

Se ne parla, ma in maniera molto superficiale, approssimativa. Stavo appunto guardando i decreti attuativi del Job act, sono ancora molto generici, non disciplinano tutta una serie di cose. Il dibattito c’è in effetti, ma superficiale, salta da un tema all’altro, dalla riforma della giustizia alla politica agricola, alla Libia, tutti devono avere le ricette pronte. Il cittadino si aspetta che il politico sappia tutto, abbia la risposta su tutto, salvo poi lamentarsi che dice cose sbagliate.

C’è un qualche spiraglio positivo?

Non bisogna occuparsi di tutto. Se ci si concentra su alcuni temi, si può lavorare; e la territorialità aiuta, perché ti concentri sulle cose che interessano il tuo territorio. Per esempio, io non devo occuparmi di Ilva, devono farlo i colleghi di Taranto e quelli che seguono le tematiche ambientali e industriali.

E questo porta a una valutazione interna ai partiti basata sulle capacità dimostrate?

In parte, ma meno di prima. È diminuito il potere dei partiti, che sono screditati, non creano né organizzano scuole di pensiero, non c’è formazione; oggi la selezione del personale è diversa: si promuove chi è nuovo. Insomma nei partiti non si può cavare sangue dalle rape. E in ogni caso il vero potere sta fuori dalla politica, la classe dirigente che conta è selezionata altrove, nell’amministrazione, l’impresa, la magistratura. Il risultato è che, per esempio, in Sudtirolo si ha difficoltà a trovare candidati sindaci.

Mario Diani

Mario Diani

Queste vicende del PD trentino costituiscono a mio parere una versione particolarmente accentuata dell’attuale trasformazione degli strumenti politici. Nei cosiddetti partiti di massa c’è sempre stata una tensione fra le strutture organizzative, che dovevano collegare la base sociale alla rappresentanza politica, e la base stessa, anche perché, come noto, le macchine burocratiche tendono a diventare fini a se stesse. Ora, negli ultimi decenni, si è verificata una rilevante caduta della partecipazione della base, con le sezioni di partito sempre più vuote o magari chiuse: il che ha ulteriormente accentuato la distanza tra base e struttura. Ma le prospettive professionali che aprono le organizzazioni politiche, nei consigli comunali, provinciali, negli assessorati e ancor più con le nomine nelle aziende pubbliche e parapubbliche, sono molto significative; per cui le élite di partito, poco condizionate da una partecipazione di base sempre più debole, finiscono con il giocare un ruolo autonomo e costruirsi, soprattutto in presenza di ingenti risorse pubbliche, una politica personale.

Insomma, si fanno i fatti loro. Il PD trentino sembra però scadente anche nel rivendicare e gestire le stesse poltrone.

In Trentino il PCI ha sempre avuto una cultura minoritaria, di forza residuale esclusa dal governo, e questa cultura è stata ereditata dal PD, che vive costantemente nel terrore che si formi un’alternativa centrista che lo emargini. Ora, l’alternativa centrista rientra nel novero delle cose possibili, ma se la tua prima preoccupazione è non perdere il posto, è chiaro che tu non hai alcun potere contrattuale, anche di fronte a forze politiche più deboli di te. Per di più qui siamo in una situazione protetta, causa la scarsa competitività della destra, che induce a una posizione di basso profilo - politiche inconsistenti, prese di posizione scolorite - che comunque assicura un certo numero di posti anche se non quelli apicali.

È una situazione che si può gestire a lungo?

Non credo che sia pagante nel medio-lungo termine.

A questo punto, come può protestare il cittadino? Come può spingere perché si facciano certe politiche? Attraverso le associazioni di categoria, i sindacati?

Non vedo che questa dinamica sia ora predominante.

E quindi?

Il giudizio sull’attività politica, che come abbiamo visto non interessa più i partiti, torna al cittadino in una maniera diversa: attraverso il voto che non viene più dato per segnare un’appartenenza, ma per punire i governanti ritenuti inadatti. Il risultato elettorale oggi è deciso da chi si astiene piuttosto che da chi vota. Così anche il voto a Grillo è stato una punizione a chi si era votato prima.