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Italia dissestata

Una tradizione dei governi italiani: generosi con le "grandi opere", taccagni con la prevenzione dei dissesti. A colloquio con Paolo Berdini, urbanista. Da "L'Altrapagina", mensile di Città di Castello.

Paolo Calabrò

“Di dissesto idrogeologico - esordisce Berdini - si parla da tanto tempo, ma si fa ancora poco. Era il 1968 quando l’allora primo ministro Giovanni Leone, dopo ll’alluvione del Piemonte che aveva causato una ventina di morti, disse che avrebbe stanziato 100 miliardi di lire per il territorio, che non poteva continuare a venir tanto maltrattato. Dopo cinquant’anni, siamo allo stesso punto, con un’aggravante: tutti i propositi delle buone leggi che sono poi state scritte (come la legge Galasso dell’85), sono rimasti sulla carta, spesso per banali rivendicazioni di competenza: nessun ente cede facilmente la propria sovranità territoriale a terzi, soprattutto se si tratta di commissioni esterne di tecnici, che magari pretendono di imporre limitazioni o stravolgimenti di una certa importanza”.

Ottobre 2014: alluvione a Genova

L’impressione è dunque quella di una continua diagnosi del male, cui non segue nessuna terapia.

“Non è un caso che la terapia non cominci mai. La menzogna più insopportabile è quella che dà la colpa alla burocrazia, dimenticando che quella stessa burocrazia è stata infarcita di personaggi di stretta osservanza politica. Il problema non è dunque il procedimento amministrativo (e coloro che dovrebbero portarlo avanti), è la politica, che non si decide a dare al dissesto idrogeologico la priorità che dovrebbe avere. Così la politica non sollecita la burocrazia e la burocrazia obbedisce alla politica e resta ferma. Il resto lo conosciamo: è uno Stato che ha rinunciato alla sua funzione principale, quella di tutelare la sicurezza dei cittadini. C’è qualcosa di più grave?».

È solo un problema di volontà politica? Esiste veramente la possibilità tecnico-economica di porre rimedio al problema?

“Ci sarebbe, ma la volontà politica resta l’elemento determinante. Il cosiddetto decreto “Sblocca-Italia” ne è l’esempio: si destinano 110 milioni di euro per il dissesto idrogeologico, mentre si stanziano 3 miliardi per le grandi opere. I soldi dunque ci sarebbero, ma vengono usati per altro. In più, pare che nessuno si accorga che spendiamo di più per i disastri che accadono che per la loro prevenzione: per l’ultima tragedia di Genova il conto provvisorio è di 400 milioni, solo per rimettere a posto le cose: e lo Stato (che ha 3 miliardi da parte) sblocca solo 110 milioni. La priorità purtroppo è la solita: l’ulteriore cementificazione del territorio”.

Si potrebbero utilizzare al riguardo anche fondi di altra provenienza, magari europei?

“Certo, perché alcuni progetti che pagheremo di tasca nostra avrebbero potuto essere finanziati dall’Europa, ma ciò non avverrà perché i progetti mancavano di una pianificazione a lungo termine relativa al territorio (e dunque anche agli aspetti idrogeologici) che invece tanti altri Paesi europei hanno già. E ce l’hanno non sempre perché la loro classe politica sia migliore, ma perché conservano una cultura di amore per la propria terra che noi evidentemente abbiamo perduto. Il simbolo di questa mentalità potrebbe essere il Bacchiglione, il fiume che ha dato la ricchezza a Vicenza fino a quando i vicentini ne hanno avuto cura; da un certo momento in poi, si è deciso di cementificare tutto e così pochi anni fa anche Vicenza è finita sott’acqua. Non siamo più capaci neppure di far tesoro della storia dei luoghi. Quel cemento non è stato fonte di ricchezza, ma di impoverimento, visti i soldi che si sono dovuti spendere all’indomani dell’esondazione. È una questione di cultura: non riusciamo più a capire che a volte la ricchezza sta nella conservazione e nella cura, non nella crescita”.

Maggio 1998: frana a Sarno

Possiamo leggere il problema ambientale che abbiamo a livello planetario come ciò che ci richiamerà all’ordine? Finalmente saremo costretti ad affrontare il problema nella sua totalità, e non solo la singola emergenza?

“Credo che la natura delle cose ci porti in questa direzione. Solo due anni fa il problema climatico veniva ancora negato, adesso per fortuna nessuno lo sostiene più. Il nostro territorio possiede delle debolezze intrinseche che andrebbero valutate e sorrette in maniera adeguata: si pensi ad esempio alla fragilità dell’intero Appennino, dovuta all’argilla. È questo il vero investimento per l’Italia: capire che la solidità del territorio può renderci più ricchi domani. Ma il governo sembra guardare da tutt’altra parte: in direzione di altre grandi opere per le quali dovrà poi fare altra manutenzione, che poi non verrà fatta, preferendole ancora altro cemento”.

Come è successo sull’Appennino due anni fa.

“Esatto: una banale nevicata - quindi non un evento straordinario, tanto meno una calamità - che blocca l’Appennino per due giorni. 48 ore di blocco totale. È chiaro che è questa l’Italia che qualcuno ha in mente: un Paese diviso in due, tra le grandi città che continuano a svilupparsi (alta velocità, banda larga, ecc.) e tutti gli altri, destinati ad essere abbandonati”.

Insomma, se il problema del dissesto idrogeologico coinvolge tutto l’Appennino, non c’è parte d’Italia che ne sia esclusa.

“Infatti. E in più c’è l’arco prealpino che andrebbe tenuto d’occhio. Un territorio che soffre paradossalmente non per l’antropizzazione, ma perché la popolazione lo abbandona per emigrare in città. Tutti vanno via in cerca dei servizi e delle opportunità che solo la città sembra offrire, e nessuno rimane a prendersi cura - semplicemente abitandoci - del suolo”.

Cosa potrebbero fare i cittadini, al di là della politica?

“La prima cosa sarebbe riutilizzare le risorse abbandonate): la vecchia fabbrica delocalizzata, ad esempio, potrebbe venir utilizzata da una cooperativa che produca qualcos’altro. Oppure quei tanti piccoli tesori che conserviamo sparsi in ogni dove e a cui non prestiamo nessuna attenzione, presi come siamo dai grandi musei e dai grandi eventi: potrebbero venir affidati a gruppi di giovani che se ne prendano cura ricavandone un reddito. Sono cose che andrebbero stimolate e incentivate a livello centrale. Come l’agricoltura orientata al biologico. Modi semplici per continuare (in alcuni casi tornare) ad abitare i luoghi sfruttandone la ricchezza intrinseca, invece di dilapidarla”.

Una specie di salto di qualità del volontariato, più organizzato, in direzione di uno sviluppo economico e territoriale nuovo, basato sul “piccolo”?

“Proprio così. E non perché “piccolo” sia sempre automaticamente “bello”: tante grandi eccellenze che abbiamo vanno conservate e portate avanti. Ma adesso che alcune di quelle grandi realtà cominciano a venir meno o ad andarsene altrove, bisogna ripartire proprio da qui: dal piccolo. Il futuro è questo”.

E per il dissesto idrogeologico in particolare?

“Il primo passo sarebbe non abbandonare i territori, continuare ad abitarli, a prendersene cura con la piccola manutenzione ordinaria che ha una grande importanza generale. E continuando a coltivarli: è il territorio abbandonato quello che frana più facilmente. Prima parlavamo dei disastri del neoliberismo e qui ce ne troviamo uno proprio davanti: il governo Monti arrivò a tassare perfino le stalle, e i miei parenti delle Marche abbandonarono la loro attività perché ormai costava più di quanto rendesse. Ecco cosa significa “mettere a posto i conti” secondo alcuni; ed ecco poi quanto costa veramente, sulla media e lunga distanza”.

E se la cura del territorio - in questi tempi in cui si parla tanto di riforma della Costituzione - venisse inserita nella nostra Carta come elemento vincolante?

“A leggere bene, questo c’è già, perché vi si trova scritto che lo Stato rimuove le cause della disuguaglianza tra i cittadini. E la fragilità del territorio è probabilmente la prima causa di disuguaglianza. Quindi ci sarebbe già un mandato costituzionale da mettere in pratica”.

Cosa suggerirebbe di eliminare, subito, dall’agenda del governo Renzi, per inserirvi invece la cura del dissesto idrogeologico?

“Toglierei le grandi opere, senza dubbio. La Brebemi (l’autostrada Brescia, Bergamo, Milano), tanto per cominciare. Spesso gli industriali sono i primi a essere contrari, perché non appena si riduce il contributo statale saltano subito fuori a mettere in evidenza che la resa non vale la spesa”.

Come nel caso delle centrali nucleari: decine di progetti e preventivi per convincere la gente dell’esistenza di un risparmio, poi, ogni volta che c’è un imprevisto, è lo Stato che deve pagare, e non l’industria che ha sbagliato i conti.

“Già, solo che gli industriali i loro conti li sanno fare bene: quando c’è un errore, quasi sempre è causato dalla malafede. Avevano detto che la Brebemi “non sarebbe costata niente agli italiani”: ma non è vero, il decreto “Sblocca-Italia” darà alla Brebemi ben 170 milioni, pari al deficit accumulato da questa società. Si dice che l’industria deve salvare l’Italia, ma poi facciamo il contrario: è lo Stato che finanzia l’industria.

Qualche tempo fa, in Campania, c’è stata la tragedia di Sarno, territorio molto friabile e vulnerabile all’acqua. I Borboni, che pure non erano noti per il loro amore nei confronti dei propri sudditi, se ne erano sempre presi cura, investendovi delle risorse. Cosa che noi non abbiamo più voluto fare. Ma la cultura - come diceva padre Ernesto Balducci, - è un fiume carsico, prima o poi viene sempre fuori di nuovo. Ai bambini dobbiamo spiegare che bisogna saper far tesoro della lezione del passato: oggi possiamo essere tutti più ricchi se sapremo far tesoro di una cultura - come quella borbonica, appunto - che teneva nel giusto conto il bene comune. Non dovremmo dimenticarlo”.

* * *

Paolo Berdini, urbanista e membro del consiglio nazionale del WWF, svolge attività di pianificazione e consulenza per le pubbliche amministrazioni. Ha pubblicato nel 2010 “L’Italia fai da te, Storia dell’abusivismo edilizio” e nel 2008 “La città in vendita”. È editorialista del “Fatto quotidiano”.

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