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“Fuocoammare” di Gianfranco Rosi

Uno sguardo in profondità

Una signora di una certa età rifà con gesti abitudinali, precisi, affettuosi il letto in una semplice camera matrimoniale che comprende anche un armadio, due comodini, le statuette di Padre Pio e della Madonna e una foto del marito scomparso. Pulisce i calamari per fare il sugo della pasta e nel frattempo chiama la radio locale per dedicare una canzone e un augurio a un parente. La radio trasmette musica siciliana di sessant’anni fa. La musica è ascoltata anche dal pescatore che nella sua barca racconta al nipote la dura vita del marinaio. Il nipote Samuele, di una decina di anni, parla in dialetto e fa una fionda con un suo amico, mangia a tavola risucchiando gli spaghetti, va a scuola, immagina di abbattere chissà chi e cosa con il braccio trasformato in fucile, fa scoppiare le foglie di fico d’india coi petardi, va dal dottore e spiega i suoi mali, cerca di fermare un amichetto che scorrazza avanti e indietro su una minimoto e si diverte a ignorarlo. Lampedusa oggi, d’inverno, è un mondo fermo all’ epoca dei nostri genitori.

“Fuocoammare”

Ma l’adolescente Samuele tenta anche di imparare a remare con un barchino nel porticciolo del villaggio e rischia di finire incastrato tra le lance di avvistamento e salvataggio di migranti delle forze dell’ordine. Così il film ci ricorda l’unità di luogo e tempo di due realtà che non parrebbero sfiorarsi. Un contatto delegato agli specialisti e al medico locale che fa ecografie, controlla le mani dei migranti per rilevare la scabbia, redige le autopsie dei morti.

Perché l’isola, sprofondata nel Mediterraneo africano, è tutta questa immobilità e allo stesso tempo l’avamposto della più grande tragedia non bellica della nostra contemporaneità. Quindicimila morti al largo delle sue coste negli ultimi vent’anni. Ultimo meridione europeo di faticosa emancipazione dalla povertà e dall’emigrazione e allo stesso tempo porta di accesso per un percorso che da ancora più a sud cerca di risalire le latitudini per approdare a lidi di pace e sopravvivenza. E l’importante lavoro di montaggio di Jacopo Quadri affiancala Lampedusaarcaica con la notte buia nel mare, le radio delle navi di pattuglia che cercano di captare gli SOS di disperati che implorano il salvataggio. Poi gli elicotteri, gli avvistamenti, l’avvicinamento, il recupero, gli sbarchi, i controlli, le registrazioni, le strutture di accoglienza.

Immagini senza l’enfasi drammatizzata delle cronache, senza i ricatti morali delle emergenze, ma di sguardo piano e puro. Senza questa onesta oggettività il film avrebbe un altro senso, quello di altri che abbiamo già visto. Solo così è accettabile, nella sua pietosa e terrificante drammaticità, la sequenza dei cadaveri nella stiva di un barcone, morti per disidratazione o asfissia. L’intento non è la denuncia, è mostrare l’incredibile contiguità di mondi così vicini e distanti, quotidiani e straordinari, miti e drammatici per fare pensare alla vita. Non al suo senso, ma alla sua bellezza e tragicità, alla sua semplicità e difficoltà di viverla. Il microcosmo di pacifici ragazzini, nonne, pescatori legati alle stagioni, ai mestieri semplici; la fatica, l’angoscia, il pericolo, lo sforzo immane per la sopravvivenza dei disperati.

Si può andare preparati e/o prevenuti a vedere questo film. Lo si può considerare appendice di tanti telegiornali di questi anni e non restarne particolarmente colpiti o sorpresi. Ma questa non è cronaca e denuncia, è sguardo oltre la superficie per arrivare al fondo della nostra umanità.

Forse per questo il film ha vinto l’Orso d’Oro al festival di Berlino. Perché va oltre le responsabilità e i ricatti, per mostrare vita e morte con un realismo umano incontestabile anche da chi, a quelle latitudini, poco sa e molto ha voluto ignorare.

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