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Ancora il ’68?

Oggi i nostalgici del buon tempo andato hanno certamente molti argomenti per giustificare i loro sospiri: dalla mancanza di lavoro al terrorismo, dagli sconvolgimenti climatici allo shock prodotto dalle migrazioni. Magari dimenticano altre cose, come l’allungamento dell’aspettativa di vita (10 anni in più, dal 1970 a oggi) o le meraviglie e le comodità dell’informatica; ma, come scriveva Peter Handke, “quando il mio passato è stato bello, rammento la situazione; quando è stato brutto, rammento me stesso”.

Eppure, con tante possibilità di recriminazione, c’è chi deplora soprattutto “la diseducazione e il permissivismo” dei nostri giorni, nonché “la diffusa volgarità, il linguaggio scurrile, la violenza, l’arroganza e la mancanza di rispetto”. Tutto questo per colpa della “pseudo rivoluzione culturale del 1968”, alla quale si sono aggiunti “dei genitori che non si sono prodigati per una corretta educazione e un corpo insegnante che per la sua larga appartenenza alla ideologia di sinistra, ha mantenuto l’indottrinamento ricevuto dall’estremismo diffuso dalle Brigate Rosse e da Lotta Continua”. Assolti, o più probabilmente ignorati, Potere Operaio, Manifesto e soprattutto l’estremismo di destra.

Questa lettera, comparsa il 5 gennaio sull’Adige e che sembra recapitata al giornale con quarant’anni di ritardo, è poco più che una stramberia, una curiosità che forse non varrebbe la pena di segnalare; sta di fatto che ha suscitato fra i lettori un piccolo dibattito. Il buon Antonio Marchi subito ribatte difendendo un movimento che “ha lottato, anche in modo sbagliato, per un mondo più giusto e più umano per tutti e che ha tutte le carte in regola per non arrossire e non scusarsi di quello che ha fatto”.

In soccorso del nostalgico interviene allora un altro lettore che allarga il discorso imputando al ‘68 la “contestazione del principio di autorità, la denigrazione delle istituzioni, la violenza, l’arroganza, l’illegalità diffusa, la mancanza del senso civico e di rispetto delle persone e dei beni comuni e privati, la volgarità ostentata” e individua in Trento il focolaio di un’infezione che ancor oggi ci avvelena: “Le contestazioni che si alimentavano nella nuova facoltà di Sociologia, voluta dai politici democristiani, divenuta subito preda di personaggi di estrema sinistra, furono devastanti sul sereno e laborioso comportamento della società civile trentina”.

Macché, interviene un altro, è tutta colpa di Berlusconi: “Vogliamo ricordare le concussioni, i fiancheggiatori delle mafie, le innumerevoli sanatorie di abusi edilizi, le associazioni a delinquere e poi i processi Mediaset e le cene eleganti? Figurarsi se il popolo italico, già non governabile di suo, non ha mollato, con tali esempi, il rispetto delle regole e dell’etica”.

Questo mini-dibattito, apprezzabile almeno per il mancato ricorso agli insulti (ormai di rigore nei contrasti ideologici), mette soprattutto in luce una pecca tipica del nostro tempo: la disinvoltura con cui chiunque si sente in grado di ragionare pubblicamente dei massimi sistemi, e di farlo semplificando abusivamente le realtà più complesse, per poi suggerire miseri rimedi improponibili alle questioni più aggrovigliate. Troppi migranti? Basta espellerli. Crisi economica? Sono i politici che rubano. E così via.

Addirittura, non ci par giusto imputare a una sola persona le brutture del trascorso ventennio: Berlusconi non era un marziano sbarcato improvvisamente dal cielo: a spingerlo sulla scena c’era la “Milano da bere”, il famoso riflusso, la voglia di leggerezza seguita agli anni di piombo, il discredito dei partiti e tante altre cose.

Almeno di questa puerile banalizzazione dei problemi il saccente, logorroico ‘68 non può proprio essere accusato!