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QT n. 1, gennaio 2019 Servizi

Gilet gialli, una sfida europea

Combinare giustizia sociale ed ecologia non è solo un problema di Macron

Matteo Angeli

Se Victor Hugo dovesse riscrivere oggi il suo celebre romanzo, “I miserabili”, i protagonisti avrebbero probabilmente il volto delle donne e degli uomini che da un mese e mezzo protestano un po’ dappertutto in Francia, indossando l’ormai famigerato gilet giallo. Il loro grido dà voce a un dramma non solo francese, ma anche europeo. Il dramma di una classe media per cui l’ascesa sociale è diventata ormai un miraggio, che vede indebolirsi di giorno in giorno il proprio potere d’acquisto, fino a far fatica ad arrivare a fine mese.

La rivolta dei gilet gialli ha fatto tremare il presidente francese Emmanuel Macron, costretto a piegarsi a concessioni che porteranno la Francia a sforare il limite europeo del 3 per cento nel rapporto deficit/pil.

Il dato negativo però è un altro: per soddisfare le richieste dei “gilet”, il presidente francese ha arrestato il processo di transizione ecologica che aveva imboccato il suo paese, come se ecologia e giustizia sociale fossero due obiettivi tra loro incompatibili. Una scelta che, di fatto, è un assist ai poteri forti che si oppongono a una svolta verde.

Tutto cominciò su Facebook

Tutto comincia come una brezza d’autunno. Su Facebook, a inizio ottobre, iniziano a girare alcuni post contro il caro-carburante, realizzati da cittadini sconosciuti al grande pubblico. Questi post, che denunciano l’aumento delle tasse su gasolio (+14%) e benzina (+7%), ottengono milioni di visualizzazioni e migliaia di commenti, tanto che in pochi giorni giungono all’attenzione dei media e del grande pubblico.

La protesta si diffonde in modo spontaneo e non coordinato, nella cosiddetta Francia periferica, la provincia dimenticata, le zone rurali, dove la gente deve fare chilometri e chilometri per andare al lavoro e soffre quindi più di chi vive in città dell’aumento del prezzo di gasolio e benzina. Il governo giustifica l’aumento delle tasse sul carburante con la necessità di favorire la transizione ecologica, facendo pagare di più a chi inquina. Argomenti che però lasciano indifferenti i soggetti più colpiti dal rincaro, indispettiti da “coloro che parlano della fine del mondo quando noi non arriviamo a fine mese”.

Da metà ottobre a metà novembre la nuova “cosa” prolifera su Facebook. Come funghi, spuntano centinaia di gruppi, indipendenti gli uni dagli altri.

Dopo appena un mese, il 17 novembre, la contestazione passa da Facebook alle strade del paese. L’obiettivo è bloccare il traffico, soprattutto ai caselli e alle rotatorie, un po’ in tutta la Francia. Potente simbolo della rivolta è il gilet giallo, che tutti gli automobilisti francesi sono obbligati a portare nei propri veicoli dal 2008.

Dalle contestazioni sul prezzo della benzina si passa al desiderio di sovvertire l’ordine costituito. Macron è il re la cui testa deve cadere. Lui è il “presidente dei ricchi”, appellativo che si è guadagnato per aver sostituito la vecchia patrimoniale, che si applicava anche ai patrimoni finanziari, con una nuova imposta che pesa, senza variazioni rispetto al passato, sui soli immobili. Ma anche per aver insultato in più occasioni i ceti più poveri, come quando ha risposto a un disoccupato: “Non hai lavoro? Se attraversi la strada lo troverai”.

Il confronto diventa scontro

L’atto numero due va in scena sabato 24 novembre. Nonostante una larga parte dei gilet gialli si consideri pacifista, a Parigi il faccia a faccia con le forze dell’ordine diventa violento. Ognuno accusa l’altro di aver dato vita al caos, in un’escalation che, una settimana dopo, sabato 1° dicembre, vede scene di guerriglia urbana non solo a Parigi, ma anche in altre città, come Marsiglia, Saint Etienne e Tolosa.

La natura acefala del movimento rende particolarmente difficile la contrattazione con il governo. La brezza d’autunno è diventata ormai un uragano. Il governo prima sospende e poi annulla il caro-carburante.

Non basta, questo non calma gli spiriti e Macron è costretto a presentarsi il 10 dicembre in diretta nazionale ed estrarre il suo gilet di salvataggio. Annuncia un aumento del salario minimo di cento euro al mese, una riduzione dell’imposizione fiscale per i pensionati che toccano meno di duemila euro netti al mese e la defiscalizzazione degli straordinari. Un pacchetto da circa dieci miliardi di euro, che varrà alla Francia lo sforamento del tetto del 3 per cento di rapporto deficit/pil nel 2019. Non si tratta proprio di briciole, anche se alcuni “gilet” dicono il contrario.

Il giorno dopo il paese si ferma a causa dell’attentato a Strasburgo. L’attenzione mediatica si sposta, le misure di sicurezza per evitare altri attacchi terroristici rendono più difficili gli assembramenti. La protesta si sgonfia ma resta significativa. Sabato 22 dicembre il ministro degli interni conta 38.600 manifestanti. Certamente pochi, se comparati con i quasi 300.000 del 17 novembre.

Un nuovo partito?

In Francia ora molti discutono della nascita di un nuovo soggetto politico legato ai gilet gialli, un po’ sul modello del Movimento cinque stelle, che possa presentarsi alle europee di maggio. Secondo un sondaggio Ipsos, questa lista potrebbe contare circa sul 12% dei voti. Si tratta tuttavia uno scenario abbastanza improbabile, perché le ragioni del successo del movimento sono anche il suo maggior freno. I gilet gialli sono un’organizzazione orizzontale, priva di un Beppe Grillo della situazione. Sono un movimento che mette insieme istanze molto eterogenee, che vanno dall’estrema destra alla sinistra radicale. Un tentativo di mettere ordine al caos provocherebbe un’implosione.

È più probabile che la contestazione indebolisca ulteriormente il presidente, sia sul piano nazionale che su quello europeo.

Sul piano nazionale, gli avversari di Macron fanno notare che le nuove misure non segnano una svolta, perché l’aumento del salario minimo non è compensato da un ritorno della patrimoniale, come chiedevano i “gilet”. E poi non si dice niente sull’ecologia.

Secondo l’economista francese Thomas Piketty, “la questione dei gilet pone il problema centrale, in Francia ed Europa, della giustizia fiscale”, sostenendo che se il presidente francese vuole salvare il proprio mandato deve reintrodurre l’imposta sulla fortuna. Imposta che Macron ha tolto con l’obiettivo dichiarato di evitare l’emorragia di patrimoni all’estero. Un fenomeno, questo, che secondo Piketty non esisterebbe, dato che dal 1990 al 2017 la patrimoniale ha portato nelle casse dello stato da 1 a 4 miliardi di euro annui.

Anche in Europa Macron ha perso la sua aura. Lo sforamento del tetto sul deficit, benché temporaneo, ne mina la credibilità agli occhi degli altri leader europei, soprattutto i tedeschi, preoccupati da questa improvvisa tendenza a fare regali, per usare le parole del Frankfurter Allgemeine Zeitung, giornale di riferimento per uomini d’affari e intellettuali tedeschi.

E questo è solo l’inizio. La crisi interna ha già innescato una revisione della sua strategia per le europee del prossimo 26 maggio. Vari dirigenti politici a lui vicini sostengono che La République En Marche, il suo movimento, metterà le questioni sociali al centro della campagna, compiendo una virata a sinistra.

Come? Valorizzando il successo parziale che la Francia ha ottenuto in materia di versamenti dei contributi dei lavoratori all’estero, inseguendo di qui alle elezioni una tassa europea contro i giganti della rete, insistendo sulla questione della lotta all’evasione fiscale e, secondo indiscrezioni, anche elaborando un piano contro le delocalizzazioni.

Come dichiara Pieyre-Alexandre Anglade, coordinatore della task force de La République En Marche per le europee, “bisognerà spiegare che molte inquietudini dei gilet gialli possono essere affrontate sul piano europeo”.

Ha ragione, ma molto dipenderà dalla convinzione con cui Macron perseguirà la sua “nuova” agenda europea e dalle alleanze che riuscirà a costruire.

L’Europa che ne pensa?

Nel parlamento europeo le vicende del presidente francese sono guardate con una certa diffidenza. Manfred Weber, leader dei popolari, ricorda che “i debiti non saranno mai la soluzione per salvare l’economia di un paese”.

Guy Verhofstadt, leader liberale alleato di Macron, è più comprensivo – per ovvie ragioni politiche – e fa notare che il problema è la crescita, cruccio non solo francese, ma anche belga, italiano e addirittura tedesco.

Al contrario, tra i verdi, che sono sulla cresta dell’onda in vari paesi d’Europa e promettono di fare molto bene alle prossime europee, regna lo scetticismo. Si contesta al presidente francese di essere stato preciso a enumerare le spese, ma non le entrate. Le risorse andrebbero cercate tra i più ricchi, tra coloro che approfittano della globalizzazione e della digitalizzazione.

Molto duro è in questo senso Philippe Lamberts, co-presidente dei verdi: “Macron è ancora convinto che ciò che è buono per i ricchi è buono per la Francia”. Completa il ragionamento Ska Keller, deputata tedesca e co-capolista dei verdi alle prossime europee: “Una risposta esclusivamente ecologica al cambiamento climatico non è sufficiente. Questa deve essere accompagnata da una vera politica sociale”.

La posizione di Keller riassume bene il nodo della questione. Affinché la svolta verde ottenga il sostegno della popolazione, sono necessari una serie di incentivi che permettano alla gente di abbracciare il cambiamento senza perdere in termini di potere d’acquisto. Altrimenti una tale svolta può apparire in contrasto con la giustizia sociale. Ma non lo è. Anzi, lottare contro l’inquinamento non solo dell’aria, ma anche del suolo, dell’acqua e dell’alimentazione è un modo per contrastare l’egemonia del profitto, dei grandi capitali, che hanno tutto da perdere da una politica più rispettosa dell’ambiente.

La protesta dei gilet gialli farà un salto di qualità solo se riuscirà a prendere coscienza di questa dinamica.

* * *

Matteo Angeli è responsabile della comunicazione e della programmazione eventi per l’Associazione parlamentare europea di Strasburgo.