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QT n. 3, marzo 2020 Monitor: Arte

“Il mistero nel segno di Carlo Andreani”

Trento, galleria Hortus Artieri. L’aspetto arcaico della modernità.

Negli anni Sessanta e Settanta Carlo Andreani suscitava nell’ambiente artistico di Trento e dell’Alto Adige un sentimento di rispetto e considerazione che metteva in qualche modo d’accordo le diverse tendenze, tale era stata ed era la sua capacità di far leva sulle basi di un mestiere acquisito nella straordinaria e per certi versi alchemica impresa dei cantieri di restauro degli affreschi medievali – questa era la sua professione – e di proseguire con una sua personale ricerca pittorica di segno e materia che si svolse senza titubanze nell’astrazione.

Non è affatto un caso che all’origine di questa mostra allestita da Hortus Artieri (dopo essere stata esposta nell’autunno scorso alla Galerie 90 di Rio Pusteria), ci sia Mauro Cappelletti, limpida e raffinata voce della ricerca astratta, che cominciò prestissimo a raccoglierne i fogli, le opere su carta erroneamente considerate minori.

Ancor oggi non smette di sorprendere, il percorso di Carlo Andreani, perché non era scontato né probabile che da un’esperienza totale del restauro sbocciasse com’è sbocciata una spinta creativa autonoma e modernissima, in piena sintonia con le ricerche astratte di Fontana e di Melotti.

E non c’è alcun dubbio sul fatto che proprio dal cuore delle sue conoscenze e delle sue pratiche erano, senza fretta, maturate in lui le condizioni, a quel punto più spirituali che tecniche, di una sorta di grande emancipazione dallo stato di grande servitore di un talento altrui: benché non risulti che abbia mai smesso il restauro, dai primi anni Sessanta il suo discorso si fa centrale per lui.

Anziché limitarlo all’uso di ineguagliate raffinatezze materiche e segniche, la consuetudine con i materiali (gli antichi intonaci, gli impasti di terre) e le tracce che potevano rivelarsi solo al restauratore (le sinopie, che erano la fase preparatoria dell’affresco e ne definivano a grandi linee il disegno), generò in lui un sentimento del segno originario e un sentimento del tempo che oltrepassano di gran lunga la dimensione tecnica e conferiscono alle sue opere una valenza di tipo mistico (in questi termini ne parlò anche Rino Sandri nel 1988). Qualcosa che si sottrae alla quotidianità e mette piuttosto in comunicazione con le nostre antiche origini e col pensiero universale.

Tutto questo non viene limitato dal fatto che la mostra sia dedicata alle sole opere su carta. Anzi. Troviamo, oltre a lavori precedenti gli anni Sessanta (puntesecche e disegni che già parlano un linguaggio di grande pulizia dei segni), le opere su carte povere (quelle che se ricordo bene si usavano ai tempi per incartare la carne, diciamo un gradino sotto la carta da imballo) e piccoli fogli provenienti da uno stesso bloc notes.

Questi ultimi sono in un certo senso un miracoloso “grado zero” del momento creativo, tutt’altro che un abbozzo per lavori successivi, ma invece, come scrive Mauro Cappelletti, “le pagine di un pentagramma su cui Andreani ha impresso la leggerezza e insieme l’intensità poetica dei segni e delle loro traiettorie”.

Quindi, anche se qui manca la specifica esperienza sensoriale della “materia” fragrante, l’intonaco di cui sono fatte le opere più grandi, l’occasione è quanto mai preziosa, perché è ben presente quel sentimento del ritorno all’origine che le caratterizza tutte, al di là di ogni facile “primitivismo astratto”.

Proprio sulla povertà di queste carte si libera – sono ancora parole di Cappelletti - “un alfabeto misterioso il quale sembra svelare nella sua a volte disarmante semplicità, l’aspetto arcaico della modernità”.

Nel libro che accompagna l’esposizione leggiamo anche un partecipe intervento di Fiorenzo Degasperi che si occupa da sempre della religiosità e del sacro popolare, il quale riflette sui modi in cui le ieratiche figurazioni dell’arte muraria delle chiese dell’Alto Adige curate da Andreani per lungi decenni abbiamo potuto esercitare la propria influenza sui suoi modi espressivi, modi che egli rassomiglia a quelli di un “grande giardiniere”.

In definitiva però, più che una testimonianza che voglia esplicitamente collocarsi in una “linea del sacro” è, mi pare, proprio “l’aspetto arcaico della modernità” che Andreani ci lascia come preziosa eredità poetica.

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