Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca
QT n. 7, luglio 2020 Servizi

Non è vivere se manca la libertà

Una gabbia, uno zoo, un recinto... Non è un problema di dimensioni. Replica alla proposta di un lettore.

Ivana Sandri
Il recinto del Casteller.

Nel numero di giugno abbiamo pubblicato la lettera di un lettore, Alessandro Giacomini, che propone come soluzione alla prigionia di M49, attualmente rinchiuso nel recinto del Casteller, il trasferimento nel “Parco faunistico di Giustino”. È convinto che un orso lì ci starebbe proprio bene: così M49, che tanti grattacapi ha dato, specialmente nei molti mesi dopo la sua rocambolesca fuga dal recinto elettrificato (costata lazzi e frizzi alla Giunta e ai funzionari provinciali), dimostrandosi vieppiù elusivo e poco propenso ad avvicinare gli umani, e dunque smentendo la fama di rappresentare un pericolo per le persone, passerebbe dall’essere un famigerato e costoso problema a rappresentare una succulenta opportunità promozionale.

Certamente riconosciamo all’autore della proposta la buona fede e il desiderio di portare ricchezza al suo territorio, con la predisposizione di un’appetibile esca (sic) per appassionati e curiosi di vario genere, che potrebbero facilmente e in tutta sicurezza incontrare l’orso.

Ma qui casca l’asino, anzi l’orso, perché chi avanza tale proposta accosta senza tentennamenti il recinto del parco faunistico ad una condizione di vita naturale, ben lontana da “quei penitenziari denominati zoo”.

Purtroppo non tiene conto che un orso maschio adulto percorre giornalmente lunghe distanze (Papillon ha dimostrato di essere un gran camminatore) e il suo territorio naturale si estende su svariati chilometri quadri. Quindi, da qualunque lato lo si guardi, il catino della ex cava non può rispettare le particolari necessità della specie.

Comunque li si chiami, - una volta erano gli zoo, oggi sono i parchi faunistici - per gli animali selvatici significano sempre e solo perdita della libertà, impossibilità di esprimere vocazioni e comportamenti specifici, vicinanza forzata all’uomo, spesso vicinanza forzata fra prede e predatori, talvolta isolamento sociale innaturale e talaltra obbligata promiscuità.

Il teologo Isidoro di Siviglia sosteneva nell’Etymologiae che risalire all’origine di una parola permetteva di comprendere l’intima essenza del suo contenuto, la sua vera natura. Concetto che ci accompagna verso la consapevolezza che la prigionia di un selvatico, per quanto possa essere comoda la gabbia, sempre tale rimane. Selvatico origina dal latino silvat?cu(m), deriv. Di s?lva, con significato di “appartenente alla selva” e si usa per definire un animale che nasce e cresce liberamente, vivendo al di fuori dell’intervento e dell’influenza dell’uomo. La storia millenaria della domesticazione ci racconta dei molti tentativi per addomesticare svariate specie animali che presentavano un interesse a fini zootecnici; ma solo con una piccola parte di queste ciò fu possibile, tutte le altre rimasero intimamente appartenenti alla selva, non accettando di sottomettersi all’uomo e rifuggendone la vicinanza. Leggere che si consideri ingenuamente che le dimensioni del catino della ex cava Maffei si adattino ad un animale intimamente e profondamente “appartenente alla selva”, come lo è M49, ci riporta alla mente periodi oscuri ma evidentemente ancora attivi nella nostra mente. Tempi in cui si considerava socialmente accettabile tenere un’aquila rinchiusa in una piccola gabbia in ferro nei giardini di Piazza Dante a Trento, un povero essere che non poteva fare l’unica cosa che avrebbe dato motivo alla sua vita: volare. La Bepina, sempre quello il nome, nonostante le aquile vissute e morte prigioniere fossero state più di una, che stava lì, sul posatoio, ferma per ore, oppure saltellava sghemba e sgraziata (le aquile non sono fatte per il suolo, sono create per il cielo) sul fondo della gabbia, per raccogliere con il becco inutilmente potente delle pagnotte ammollate o delle frattaglie maleodoranti. Tempi in cui fra i luoghi delle gite fuori porta c’erano due recinti con gli orsi.

Gli orsi di Sardagna.

Il primo era costituito da una buca di cemento scavata nel belvedere di Sardagna, da cui si ammirava il panorama della città, prima di tirare qualche pezzo di pane, alcune nocciole americane, oppure un paio di caramelle agli orsi, che chiedevano il cibo alzandosi in piedi e toccandosi i palmi delle zampe anteriori in un silenzioso battimani. I bambini cercavano di tirare i bocconcini a portata degli animali, perché amavano vederli afferrare al volo con le “mani”, oppure li gettavano nella piscina rettangolare, per vederli nuotare. Al centro della buca uno scheletro di pianta, l’unico simulacro di una natura che non avevano mai potuto conoscere. Ma era di molto migliore dell’altro sito: una piccolissima gabbia nel parco di Gocciadoro, pochi metri quadrati in cui languivano nell’apatia assoluta due orsi, stretti fra una parete di roccia e le sbarre di ferro che leccavano ossessivamente (anni dopo gli etologi ci diranno che si trattava di stereotipie, un chiaro segno di stress e sofferenza psichica). Un paio di metri di rigagnolo scorreva sul cemento del pavimento, in luogo dei torrenti e dei laghi in cui non avrebbero mai potuto immergersi.

L’aquila Bepina di piazza Dante.

Per anni aquile e orsi furono vittime di una crudeltà inconsapevole, nella convinzione che gli animali stessero bene, nell’accezione normale del termine, perché avevano sempre cibo a sufficienza (era finita da pochi anni la guerra e molti ricordavano bene i morsi della fame), avevano sempre acqua da bere a disposizione e nessuno li picchiava. Col tempo si capì che le condizioni in cui venivano detenuti gli animali erano inaccettabili. Così la Bepina morì e non venne più sostituita, mentre nel 1994 fu realizzato un recinto nei boschi di Spormaggiore, per accogliervi gli orsi sopravvissuti di Gocciadoro e Sardagna: sicuramente un miglioramento per degli animali nati in cattività, ormai dipendenti dall’uomo, incapaci di vivere in ambiente naturale. Ma, per l’appunto, nonostante questi orsi non avessero mai conosciuto la vita libera, non illudiamoci che così sia stata rispettata l’etologia, che abbiano recuperato condizioni di vita naturale, che abbiano raggiunto uno stato di benessere psico-fisico, di recupero dell’omeostasi: si è trattato esclusivamente del passaggio da una gabbia inadeguata e squallida, da una situazione di grave deprivazione sia fisica che comportamentale, ad una condizione di reclusione che una parte della società considera - ancora - tollerabile.

Oggi capiamo a quale misera esistenza abbiamo condannato le aquile di Piazza Dante e gli orsi di Gocciadoro e Sardagna; domani ci renderemo conto che per gli animali selvatici, forse non è vivere, se manca la libertà.

Parole chiave:

Articoli attinenti

In altri numeri:
M49: una risorsa?
Alessandro Giacomini
Cara Brigitte Bardot, ti scrivo…
Ivana Sandri

Commenti (0)

Nessun commento.

Scrivi un commento

L'indirizzo e-mail non sarà pubblicato. Gli utenti registrati non devono inserire altre verifiche e possono modificare il proprio commento dopo averlo inserito.

Riporta il codice di 5 lettere minuscole scritto nell'immagine. Puoi generare un nuovo codice cliccando qui .

Attenzione: Questotrentino si riserva la facoltà di cancellare commenti inopportuni.