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Il Brasile sta precipitando

Le cause? Una gestione sanitaria insensata e l’amore per la vita della gente, più forte della paura della morte

Il Brasile ha preso fuoco. Dopo quattro mesi di progressione dell’epidemia e praticamente nessuna misura di contenimento messa in pratica dal governo Bolsonaro, ora il numero dei morti è giunto a 260.000, stabilmente sopra i 1.300 al giorno. Con un totale di persone colpite dal virus che ha superato i 10,5 milioni. Ed una accelerazione violenta della propagazione del contagio. Tanto che per la prima volta il generale (uno dei tanti militari al governo) e ministro della Salute, Eduardo Pazuello, ha dovuto ammettere che il ceppo amazzonico del Covid si è sparso per il paese. Mentre il suo presidente ancora il 26 febbraio ha urlato da un palco, senza mascherina sulla bocca: “Il governatore che deciderà un lock down dovrà coprire con le risorse del suo stato i fondi straordinari che il governo gli sta versando per l’emergenza virus”. Ma quasi nelle stesse ore il bolsonariano segretario della Salute dello stato di S. Catarina era costretto ad arrendersi: “Siamo al collasso”. Nello stato 70-80 persone, in condizioni gravissime, già oggi non trovano un posto letto nelle rianimazioni. E così è ormai in molte città di Rondonia, Amazzonia, Bahia, Minas Gerais, Rio de Janeiro, Rio Grande do Sul. Siamo solo all’inizio. È dietro l’angolo il delirio Brasile.

Un giorno qualsiasi, un venerdì, passeggiando in una delle città più civili ed evolute del paese, la “tedesca” Blumenau (360.000 abitanti, qualche decina di migliaia di origini trentine) alle 17 di sera: bar e pasticcerie pieni di gente, negozi aperti ed affollati, strade percorse da migliaia di persone. Come se il virus non esistesse. Mascherine quasi per tutti. Quasi. E alcol gel, come dicono qui, in ogni luogo. Ma nei bar e nei negozi le persone stazionano, si avvicinano e si stringono. E le mascherine spesso si vestono sotto il naso e sono quelle di stoffa che poco trattengono.

La prova l’abbiamo il giorno dopo nella vicina Pomerode, in un ristorante, a mezzogiorno: il pieno assoluto, tavolini piccoli, persone sedute ad un metro l’una dall’altra, finestre sigillate perché l’aria condizionata sta funzionando a tavoletta. La peggiore situazione in termini di igiene e la migliore per la divulgazione del virus. La gente non sa? Abbiamo provato a dirlo al proprietario. E la risposta, secca ed indecente: “L’aria condizionata non funziona e se apri le porte i clienti non sarebbero d’accordo”.

A 75 chilometri di distanza, nella città di mare, di spiagge, e anche di divertimenti e di “peccato” di Balneario Camboriù, gli arenili sono affollati e non sono rare le feste private con decine di persone a stringersi nel divertimento. Meno, molto meno che a Rio de Janeiro, la città di Jair Bolsonaro, dove non passa giorno che la polizia non debba intervenire per l’assembramento di migliaia di persone a Copacabana o Leblon o l’ammassarsi di centinaia d’altre in qualche club che spaccia ballo e musica.

“Non abbiamo più posti di terapia intensiva. Per amor di Dio, restate in casa”

Il fatto è che dall’inizio della pandemia la presidenza e gli organi governativi hanno gridato ai sette venti che il contagio non è nulla. Che si tratta di un’influenzucola, che tutti devono morire, che la normale influenza causa lo stesso numero di morti, che basta la clorochina per difendersi… e via raccontando fanfaluche.

Ma non è solo Bolsonaro, che peraltro in questo periodo (numeri forniti da Data Folha, istituto di ricerca appartenente al gruppo editoriale del giornale Folha de S. Paulo) si ritrova con una popolazione che al 40% pensa che la sua gestione del potere sia cattiva o pessima: grande parte dei brasiliani, probabilmente ben più della metà, non vuole sentire parlare di limitazioni alla socialità e soprattutto all’economia. Recentemente un docente universitario ha scritto su un giornale nazionale che la presidenza Bolsonaro, probabilmente consciamente, ha scommesso sul fatto che il tradizionale scarso senso della sacralità della vita del popolo brasiliano, risultato anche di centinaia d’anni di schiavitù nel paese, avrebbe avuto il sopravvento sul timore della morte. La gente insomma non si commuoverebbe troppo per le migliaia di morti. Se non nel privato, quando a mancare sono i nonni, i padri o magari qualche figlio. Ma fino ad allora la corsa è verso la vita. Verso il divertimento e, ancor più, l’economia, gli affari.

Qualcosa, sia pur non a livello di Europa o di Italia, era stato fatto nella prima fase dell’epidemia, diciamo da luglio a settembre 2020. Ma dai governatori, non dalla presidenza. E comunque i risultati si erano visti, con un calo deciso delle infezioni che era andato avanti per qualche mese.

Ma la campagna battente della presidenza, la mancanza di programmazione e la dilettantesca gestione del ministro Pazuello (milioni di kit per i tamponi scaduti nei magazzini, più recentemente vaccini diretti agli stati di Amapá e Amazzonia inviati alla destinazione errata, visita ad una Manaus che in piena emergenza non disponeva di bombole di gas da erogare ai pazienti intubati per dire che tutto era stato risolto mentre niente era stato risolto) hanno condotto il paese alla situazione attuale. Anche perché negli ultimi tre mesi si è imboccata l’estate, col tradizionale “tutti al mare”, si è entrati in epoca natalizia e poi in quella carnevalesca, dove in troppi hanno voluto festeggiare. Scordando le cautele che avevano permesso di trattenere un poco la corsa del Covid.

Nel frattempo, nello stato di Amazzonia è comparso il ceppo mutato del virus, quello che si propaga molto più velocemente. E da Manaus, come era capitato anche nell’inverno tropicale scorso, sono giunte al mondo immagini atroci: dopo la gente che moriva senza ossigeno, gli ospedali presi d’assalto e le cure intensive intasate. I giorni di attesa e le morti decuplicate.

Non solo Manaus. I problemi sono iniziati in Minas Gerais, Goias, Rio de Janeiro. E San Paolo, il più popoloso stato del Brasile e quello economicamente di gran lunga più potente. Mentre il presidente Bolsonaro e il governatore di S. Paolo João Doria, gestivano una battaglia tutta ideologica sui vaccini anti-Covid. Vaccini sì, vaccini no, con la ragione che stava dalla parte di Doria, che però in mezzo ai problemi era stato beccato a farsi le vacanze a Miami, rientrando poi alla chetichella.

Non solo S. Paulo. Di più, anche di più, i civilissimi e ricchi stati del sud. Rio Grande do Sul ora praticamente in ostaggio del virus. E S. Catarina, dove stanno succedendo cose riprovevoli. Dove il sindaco di Blumenau, Mário Hildebrandt, bolsonariano, ha per mesi bluffato sulla disponibilità di posti nei reparti di cure intensive. E nei giorni scorsi ha dovuto ammettere l’errore. Errore? Ha confessato solo dopo giorni in cui la sua città inviava gli ammalati gravi negli ospedali dei municipi vicini.

Il Brasile prende fuoco. E l’accendino è il Covid 19. Ma si sapeva da mesi che saremmo arrivati a questo. Ed ora, da pochissimo, vari sindaci e governatori stanno prendendo dei provvedimenti, in realtà non troppo decisi.

Qui lo chiamano coprifuoco, ma cosa volete che serva, alla luce delle esperienze europee, nordamericane e asiatiche, chiudere bar e ristoranti dalle 23 alle 5 del mattino… o per i successivi due fine settimana? La tautologica verità vera è che anche i governatori hanno paura di dire ai loro cittadini che è ora di frenare, di stare un poco di più a casa, di chiudere bar e ristoranti e di non ammassarsi sulle spiagge. Perché la maggioranza dei loro cittadini, che sono i loro elettori, pensa più alla vita che alla morte. Ma anche perché il governo centrale e vari governi statali (e centinaia di sindaci) hanno finora sbandierato la barzelletta della “influenza da poco”, del “tanto si muore egualmente” e della clorochina. E molti hanno finto di non vedere, per continuare a fare affari.

Il 26 febbraio S. Catarina ha conosciuto i primi due morti nelle file di coloro che aspettavano da ore o giorni di essere ricoverati in un reparto di cure intensive. Solo poche ore prima il suo segretario della Salute, André Motta Ribeiro, aveva dovuto alzare le braccia al cielo, comunicando ai suoi sindaci che “la situazione della pandemia si è deteriorata in tutto lo stato e stiamo entrando in collasso”. Eccolo, allora, chiedere proprio ai sindaci “misure emergenziali per diminuire significativamente la circolazione delle persone”. Mentre invece, nello stato confinante di Rio Grande do Sul il sindaco della capitale Porto Alegre pensava ad altro: “Contribuisci con la tua vita affinché insieme possiamo salvare l’economia della nostra città”. E Bolsonaro, infuriato, gridava da un palco che chiuderà i rubinetti dei contributi speciali per la pandemia a quei governatori che decideranno di chiudere le attività economiche per qualche tempo. Magari per dare tempo ai vaccini di giungere in numero sufficiente nel paese, pur senza un piano di acquisti fatto per tempo e senza progetti preparati in tempo per distribuire e applicare gli stessi vaccini. Finora sono stati 6,5 milioni i vaccinati, il 3,5% della popolazione. Ma le dosi scarseggiano e il fatto di averle ordinate solo a partire da dicembre, le rende più care su un mercato che fa del vaccino una merce e non un ausilio e una salvezza per l’umanità.

In una cosa il Brasile fino a pochissimo tempo si è dimostrato deciso: le scuole pubbliche sono rimaste chiuse per una decina di mesi e ora quelle che hanno riaperto rischiano seriamente di sbarrare di nuovo le porte. E anche su un’altra cosa, a guardare bene: due ministri della Salute di questo governo non hanno previsto, e quindi finanziato, la possibilità di dover ricorrere ad ospedali da campo, pur con tutti gli esempi che venivano dal mondo. Perché il Covid non è nulla. E così la morte. Solo l’economia è importante.