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L'aborto fra Chiesa e femminismo

Interruzione volontaria di gravidanza: un diritto sacrosanto, di cui però non va dimenticata la dimensione drammatica. Da “Una Città”, mensile di Forlì

Scaraffia Lucetta

L’aborto è una questione centrale per il femminismo ed è una questione centrale per la Chiesa”, afferma giustamente la scrittrice Agnieszka Graff in un'intervista dedicata alla nuova legge restrittiva contro l’aborto votata in Polonia. Questione però che non viene mai affrontata in uno scambio di pareri fra le due parti in conflitto, ma vissuta come campo di battaglia che divide la Chiesa e le donne. Le femministe cattoliche stesse per lo più non osano parlarne apertamente per non essere messe fuori legge dalle gerarchie ecclesiastiche; oppure, se hanno tagliato i ponti con l’istituzione, si dichiarano favorevoli al diritto di aborto senza discuterlo.

Invece c’è molto da discutere. Per la Chiesa non si tratta solo di un problema morale, ma anche politico: una legislazione che punisce l’aborto è da considerarsi una difesa della vita contro la cultura della morte e quindi i cattolici devono appoggiarla. Anche nell’ultimo caso, in Argentina, il papa si è pronunciato contro la depenalizzazione dell’aborto. Del resto, in due diverse circostanze, papa Francesco ha espresso una durissima condanna: “È come affittare un sicario per risolvere un problema”, frase che ha ferito le donne perché dimentica che il dramma viene pagato con la sofferenza nel loro stesso corpo. Una definizione così crudele ha in parte cancellato la reazione positiva che aveva suscitato -in occasione del Giubileo della misericordia del 2015- la sua decisione di togliere il peccato di aborto dall’elenco di quelli considerati riservati, cioè talmente gravi da poter essere assolti solo da un vescovo. Si trattava di un modo per classificare l'aborto ancora più grave dell'omicidio.

Ma l’istituzione ecclesiastica ha le carte in regola per mostrarsi così inflessibile? Per sostenere posizioni così rigide e punitive, per parlare di “cultura della vita e della morte” con tanta sicurezza e intervenire in proposito nella vita politica, bisogna avere la coscienza a posto. La Chiesa ce l’ha la coscienza a posto?

Recentemente, sconvolta dalla scoperta di tanti piccoli cadaveri sepolti nelle case per la protezione delle ragazze-madri in Irlanda, prova di una colpevole indifferenza per la sorte di quei neonati, Anne Marie Pelletier ha scritto su La Croix: “Siamo davanti a un'evidenza sconvolgente: la cultura della morte, denunciata dal magistero, non è semplicemente il male dell’altro. È anche questa realtà che incancrenisce la vita della Chiesa, che prospera in comunità che credono al Vangelo della vita. Si può immaginare qualcosa di più orribile dei resti di 786 piccoli morti nell’orfanotrofio irlandese di Tuam recentemente identificati, nascosti in quella che era stata una fossa fognaria?”. La Chiesa non chiede scusa per questi orrori, come non chiede scusa per gli aborti a cui sono state costrette tante religiose abusate da preti e religiosi e rimaste incinte, che devono subire una doppia violenza e sentirsi anche colpevoli di avere peccato interrompendo la gravidanza.

Viene da pensare che le donne vengano giudicate così severamente perché considerate ribelli al loro destino, al compito loro imposto da Dio. Quindi hanno ragione le femministe a vedere nella persecuzione dell’aborto attuata dalla Chiesa un attacco alla libertà della donna, una costrizione ad accettare senza proteste il loro destino biologico.

I tempi cambiano...

L’abbandono da parte delle gerarchie ecclesiastiche di una battaglia politica già quasi perduta, quella contro la legalizzazione dell’aborto, potrebbe essere il primo passo per affrontare il problema da un punto di vista meno ostile alle donne. Una volta che si è rinunciato alla difesa delle leggi punitive, e quindi si è rotta l’alleanza con i partiti dell’estrema destra che le sostengono, i cattolici possono intervenire liberamente nel dibattito col femminismo, riaprendo la discussione e inducendo le femministe a ripensare a come questo tema è entrato nella fondazione del movimento di liberazione della donna.

Se la posizione politica a favore della punizione legale dell’aborto può e deve essere superata, rimane però aperta la questione morale, cioè la valutazione dell’aborto come peccato: la legalizzazione non è necessariamente legittimazione. Su questa invece bisogna discutere, avere il coraggio di intervenire, anche a costo di dire parole poco in sintonia col politically correct.

Il dibattito sulla legittimazione dell’aborto vede contrapporsi i sostenitori di due beni differenti che guardano all’aborto da due punti di vista: i cattolici, che considerano bene maggiore il diritto alla vita del feto, partono da un punto di vista oggettivo, mentre le femministe che - dal punto di vista delle donne - considerano la libertà di scelta della donna il bene da difendere, pensano che la libertà individuale sia il diritto primario per ogni essere umano. In entrambi i casi questi sguardi semplificano una questione più complessa, dove i diritti si intrecciano nello stesso corpo, coinvolgono la stessa persona, perché anche la decisione della libertà diventa una violenza sul corpo della donna, oltre che, ovviamente, una violenza sul feto, e pure il diritto alla vita del feto si configura come una violenza nei confronti della donna.

La presa d’atto di questa contraddizione comporta una discussione sull’identità femminile: se per i documenti della Chiesa la donna è solo e soprattutto madre, per le femministe la maternità è spesso (non sempre, per fortuna) considerata un ostacolo per la libertà della donna.

Le femministe cattoliche possono ricordare che dare la vita è un’elezione, non solo un fardello, e che l’aborto è anche sopprimere un principio di vita. Riaprendo così una questione che sembrava risolta in modo troppo semplificato, si può arrivare finalmente a discutere un tabù del politically correct: è giusto fondare la libertà delle donne sul diritto di aborto? Un conto è difendere la libertà di aborto, scelta, come si è detto, giusta e necessaria, un conto è farne il principio fondante e ispiratore del movimento femminista.

Veramente le donne possono pensare che la loro liberazione possa avvenire solo a costo di negare la propria specificità biologica, di negare il dono che hanno di creare un altro essere umano? È vero che l’oppressione delle donne si fonda proprio sul tentativo di relegarle a questa funzione, ma ciò può avvenire solo a condizione di deprezzare la maternità, considerandola una funzione secondaria di fronte alla creatività “razionale” del maschio. Col diritto di aborto le donne si sono conquistate la liberazione da questa condanna, ma non hanno avuto la forza di rovesciare il segno negativo che contraddistingue la maternità rivendicandone la grandezza e la potenza.

Al contrario, hanno posto a fondamento della loro liberazione un atto negativo, il diritto di aborto, che segna la fine della speranza di vita di un embrione ma, soprattutto, un atto di violenza contro il corpo femminile, proprio il contrario di quello che deve essere un processo evolutivo, una liberazione. La battaglia per la legalizzazione dell’aborto va fatta, come va fatta quella per il voto, per l’accesso alla cultura, per la parità salariale, ma non può essere considerata fondativa del protagonismo politico femminile, ma piuttosto un male necessario.

Dire la verità sull’aborto, ammettere che per una donna è un dramma, che non si tratta di un intervento medico come un altro, vuol dire aprire la porta all’ammissione di altre verità che il politically correct cerca di nascondere dietro un velo di silenzio, come il fatto che le varie pillole del giorno dopo (che creano una tempesta ormonale nel corpo della donna) non sono esenti da conseguenze per la sua salute, soprattutto per chi vi ricorre ripetutamente. Ora chi osa sollevare il problema viene accusato di essere contro l’aborto, quindi nemico delle donne. Così accade a chi osa dire che proprio queste pillole, considerate il passaporto della libertà, in realtà rimandano le donne a una solitudine assoluta, a un dolore che non prevede alcun tipo di assistenza, che almeno in un aborto normale è assicurata nelle strutture sanitarie.

Sono tante le cose che non si possono dire a proposito dell’aborto, anche se a dirle è un laico certo non sfavorevole alla legalizzazione come Luc Boltanski, che nel 2004 ha pubblicato un’interessante analisi sull’interruzione di gravidanza in Francia, in cui si scopre che il sindacato dei lavoratori sanitari ha chiesto una rotazione per gli infermieri e gli inservienti addetti ad assistere e a eliminare i frutti dell’aborto, perché, anche se favorevoli all’intervento, dopo un po’ cadono in un stato depressivo.

Tuam (Irlanda): la fossa comune dove furono sepolti 800 bambini figli di ragazze madri ospitate, fra il 1925 e il 1961, in un istituto gestito da suore.

Boltanski riflette sugli effetti ontologici della legalizzazione dell’aborto, scrivendo che ha come conseguenza una frattura indelebile nel concetto di eguaglianza degli esseri umani, perché li divide fra quelli accettati e quelli non accettati, e questo cambia non solo le condizioni del nostro ingresso nell’umanità, ma la condizione umana stessa. E sottolinea che in questo modo le donne detengono una sovranità sulla creazione degli esseri umani che può generare effetti inquietanti. Infatti le donne, che già sono dotate del potere naturale di generare, si vedono riconosciuta anche l’autorità di decidere chi potrà vivere e chi no.

Un’autorità che si fa sempre più forte: sappiamo che da quando è stata votata la legge, sono state apportate modifiche che, oltre a rendere l’aborto più accessibile, lo hanno anche alleggerito di quelle condizioni (come l’obbligo di un colloquio preventivo e l’attesa di un lasso di tempo fra la domanda e la realizzazione) che erano state accusate di colpevolizzare le donne.

Questi provvedimenti tendono a sdrammatizzare l’aborto, a farlo diventare un intervento come un altro, a considerarlo una sorta di continuazione della contraccezione. Le questioni poste dai cattolici invece non possono che ricordarne la dimensione tragica, non possono che riaprire una ferita che si vuole pensare guarita, ma proprio per questo hanno la funzione di risvegliare le coscienze e di riportare a riflettere su una realtà che l’ideologia vorrebbe cancellare. Se non si ha il coraggio di affrontare apertamente la questione, ci saranno solo drammatici casi di donne sole che non osano neppure confessare le proprie paure e la propria sofferenza.

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Lucetta Scaraffia è docente di Storia contemporanea presso l'Università La Sapienza di Roma e membro del Comitato Nazionale di Bioetica.