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QT n. 9, settembre 2023 Monitor: Cinema

Tre film e una serie Tv

Comandante, Ferrari, Dogman, D'argentina et de sang

Cinema

Il primo film in concorso dell’80° edizione del Film Festival di Venezia è “Comandante” di Edoardo De Angelis con Pierfrancesco Favino.

Nell’autunno 1940 un sommergibile della Regia Marina forza Gibilterra ed esce in Atlantico per intraprendere la guerra di corsa (non a caso innalza il Jolly Roger). Dopo l’affondamento di una neutrale nave cargo belga, che per prima li aveva cannoneggiati, il comandante decide di salvare i ventitrè naufraghi. Nel realizzare un film di guerra all’italiana, il regista limita l’azione per preferire i tempi e i modi di un film esistenziale, filosofico, morale, con radici nella classicità e rimandi alla contemporaneità fin troppo espliciti. Scelta interessante, peccato per il taglio eccessivamente estetizzante, soprattutto nella prima parte, e per i tanti stereotipi nazionali con i soliti mandolini, la Cavalleria Rusticana, la marzialità canzonettara, gli gnocchi al sugo, e la pietas lacrimosa di cui è punteggiato il film. Retorica che forse ammicca ai coproduttori americani, abituati a una certa rappresentazione cinematografica dell’Italia, francamente insopportabile per un pubblico diverso. Il film insomma alterna cose buone ad altre meno riuscite, ma personalmente mi muove qualcosa, visto che mio padre nel 1940 era arruolato in marina ed è stato imbarcato anche in un sommergibile, come radiotelegrafista. E se poco o niente mi ha raccontato di quella esperienza, questo film mi ha dato un’idea di quella sua gioventù, delle condizioni di marinaio in guerra e altre cose.

Vedere un film ambientato a Modena nel 1957 tutto parlato in inglese è spiazzante a scapito della sua credibilità complessiva. È quello che succede con “Ferrari” di Michael Mann, secondo film in concorso ufficiale e dedicato all’imprenditore di Maranello. Ma è una sensazione che coglierà solo chi vedrà la versione originale, compensata per altro da una accurata ricostruzione d’epoca (a parte l’improbabilità di un Enzo Ferrari che guida una Peugeot 403) e dalla convincente recitazione di tutti gli attori a partire dai protagonisti Adam Driver e Penelope Cruz. Il film non è una biografia, racconta invece un momento preciso in cui si intrecciano elementi personali e lavorativi: il matrimonio in crisi per la prematura perdita del figlio Dino, la convivenza con una seconda compagna e la bancarotta dell’azienda creata con la moglie. Una storia di una certa complessità, che fortunatamente evita l’agiografia tipica delle fiction nazionali, per svelare anche lati cinici ed egoistici del protagonista. E questo è il maggior pregio del film, che per il resto è una classica produzione americana. Molto ben girato, con un giusto ritmo, ma senza essere particolarmente avvincente ed emozionante.

Sempre in concorso ufficiale, “Dogman” di Luc Besson parte come un film drammatico per poi prendere una piega grottesco-surreale (neanche tanto convinta) e restare lì sospeso e ambiguo fino al patetico finale. Pur con qualche prevedibilità di troppo, dopo un buon inizio il ritratto dell’uomo emarginato, dalla terribile infanzia, che sopravvive grazie all’amore dei suoi cani, convince meno quando i fedeli compagni diventano strumenti della sua vendetta. La svolta improbabile e marionettistica rivela il lato più fatuo che faceto, tipico dei suoi film. E così è probabile che anche questo ultimo lavoro convinca i classici sostenitori del regista piuttosto che gli scettici verso le sue opere precedenti.

“Dogman”, di Luc Besson

Se questa prima selezione di film in concorso non risulta particolarmente valida, a dare una sensazione diversa è, fuori concorso, la serie televisiva francese “D’argent et de sang”, scritta e diretta da Xavier Giannoli, già apprezzato al Lido due anni fa col riuscito “Illusioni perdute”.

Da alcuni anni il festival accoglie produzioni per la televisione, che poi spesso ricevono anche dei meritati premi. Ma qui si tratta proprio di una serie TV di 12 puntate da 50’ destinate esclusivamente al piccolo schermo, ma realizzate con i mezzi e la qualità del cinema classico. Al centro del film lo scandalo della Carbon tax, una frode di miliardi di euro ai danni dell’erario francese, avvenuta tra il 2008 e 2009. Ad operarla piccoli truffatori di seconda emigrazione e rampolli della borghesia finanziaria. Un mix anomalo, agglomerato dall’appartenenza alla stessa comunità ebraico sefardita. E anomalo è anche questo poliziesco che nelle vesti del detective trova un magistrato delle dogane ottimamente interpretato da Vincent Lindon. Serrato ed incalzante senza essere inutilmente adrenalinico, il film all’intrattenimento coinvolgente affianca serie riflessioni e accuse sulla finanza spregiudicata del vorace capitalismo, sulle debolezze politiche ed umane, sulle falle dei sistemi giuridici e di controllo e molto altro.

Da non perdere.

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