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QT n. 5, 10 marzo 2001 Monitor

La tigre e il dragone, di Ang Lee

La giuria preposta all’assegnazione degli Oscar (19 marzo) avrà un lavoro non facile, pare, nella scelta tra due film insigniti di una decina di nominations ciascuno: "Il gladiatore" di Ridley Scott, di cui si è parlato all’uscita in questa rubrica, e "La tigre e il dragone" di Ang Lee, da qualche tempo con successo sugli schermi.

Prima del film vale la pena presentare il regista: cinese di Taiwan, dove nasce nel ‘54 e trascorre gli anni di formazione fino alla prima giovinezza, nel ‘78 si trasferisce negli Stati Uniti, dove studia cinema e si rivela presto un sensibile e garbato autore di film che raccontano il conflitto tra i sentimenti intimi e le tradizioni in un contesto di contemporaneità e culture diverse, usando i toni dell’ironia sofisticata, capace di togliere pretese e dare piacevolezza alla visione. Ricordiamo "Il banchetto di nozze" (‘93), incontro-scontro tra culture in un ambiente americano-taiwanese, dove un gay si sposa con una cinese per non deludere i genitori venuti appositamente per lui dalla Cina; e "Mangiare bere uomo donna" (‘94), le odierne contraddizioni del vivere a Taiwan, passando per raffinati riti culinari, celebrati da un padre, grande chef, per le tre figlie con deludenti prospettive matrimoniali.

Ma anche nei film seguenti, l’ambito preferito del regista resta quello delle peculiarità culturali, affrontato con leggerezza di stile ma insieme con serietà di convinzioni e propositi nel narrare storie le più diverse, e a lui congeniale perché esperienza vissuta, si tratti della Cina o dell’America, i cui valori e modi di vita, coabitanti dentro di lui, ha ben acquisito. Secondo la sua attitudine, indaga nei risvolti sentimentali dei personaggi e nei meccanismi che guidano la loro inesausta ricerca di approdo affettivo: con le parole del regista, "in qualsivoglia contesto io amo raccontare storie di uomini e donne"; e questo filo, che si può anche dire la sua idea di cinema, percorre tutti i suoi film, ogni volta in vesti differenti e nuove. Così , "Ragione e sentimento" (‘96), dal romanzo di Jane Austen, ambientato in uno spazio e in un tempo a lui estranei, ricostruiti nei paesaggi dai tratti romantici, negli interni e nei rituali, con leggiadria e limpidezza linguistica, "Tempesta di ghiaccio" (‘97), l’apparenza idilliaca di un ménage familiare alto borghese nel Connecticut, che nasconde tensioni e frustrazioni, sconvolta da una tragedia causata da calamità naturale, "Cavalcando col diavolo" (‘99), un tema forte della storia d’America e del suo cinema, la guerra di secessione, con le violenze, le crudeltà, l’inesorabilità della guerra civile, da cui emerge una storia di formazione, un’educazione sentimentale in contesti familiari intessuti di affetti e saldi valori.

Anche nell’ultimo, "La tigre e il dragone", l’eclettico e piacevole Ang Lee si attiene agli elementi tipici del suo cinema, che questa volta ritrova in un romanzo popolare cinese cui si ispira, e che anche questa volta racconta i sentimenti di uomini e donne. Mescolando ironia, curiosità e spettacolarità, rivisita l’antica tradizione della sua cultura d’origine, con una storia fiabesca ambientata nel primo ‘800, al tempo della dinastia Ching: un monaco guerriero, saggio e bello, si confronta sul piano della lotta con una ragazza dallo spirito libero e ostinato, innamorata di un giovane ribelle che vive nel deserto e abilissima nelle arti marziali apprese dall’astuta nutrice; egli ama profondamente un’amica guerriera, amore però sempre taciuto fino in punto di morte, forse in onore al suo credo che "la verità sta nel silenzio"; protagonista è poi una spada, carica di 400 anni di sfide e morti inflitte, che, più volte rubata e ripresa, sarà oggetto catalizzatore delle azioni dei personaggi in scena; che si muovono, volano, combattono, sognano, soffrono tra saggezza e passioni, massime religiose e popolari, leggende e storia, e intessono così le loro vite sempre al confine tra realtà e irrealtà, tra senso dell’onore e amori celati.

Un film insolito e molto bello, una elegante miscela di poesia e bellezza, di persone gesti e paesaggi, e di violenza e astuzia, secondo una coreografia tipica del genere, ma resa splendida dal talento di uno specialista già famoso, Yuen Wo Ping, che ospita il fulgore di corpi che vincono le leggi della gravità in combattimenti d’arte marziale, molti al femminile, realizzati con la tecnica del Kung-fu aereo, che si disegna come una danza raffinata: un’avventura visiva straordinaria, con la forza di dare di per sé emozioni. Persone e cose sono percorse da magia, che è parte di loro e rende possibile, e quasi verosimile data la leggerezza e rapidità dei movimenti, la capacità di volare su tetti e abissi, di superare erte montagne, correre sui muri, intrecciare impossibili multipli salti mortali evitando sciabolate, combattere in un bilico danzante e stupefacente sulle alte cime ondeggianti dei bambù.

Lo spettatore occidentale resta stupito di fronte a tanta stravaganza, di stile, di trama, di mondi visionari insoliti e nuovi, ma agli occhi di uno cinese il film appare come un classico, assai trasparente e aderente ai codici del genere: il Wu xia pian, infatti, è un cappa e spada diffuso in Cina sin dagli anni ‘70, stilisticamente innovativo, nutrito della locale mitologia e contaminato pure dalle storie dei fantasmi dell’Opera di Pechino. Padre del genere è Hu Jinquan, che girò il capostipite nel ‘71, "A touch of Zen", considerato uno dei più grandi film del dopoguerra.

Lo si può dire un genere che per la Cina rappresenta ciò che il western rappresenta per l’America. Ang Lee, scherzoso, definisce questo suo ultimo lavoro "un ‘Ragione e sentimento’ con Kung-fu, Jane Austen che sposa Bruce Lee".