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Alla scuola dei bulli

Il “nonnismo” nelle scuole. I risultati di una ricerca. Da “Urlo”, mensile di resistenza giovanile di Ancona.

Suona la campanella delle 11, è tempo di ricreazione. Ma è anche tempo di "tangente". Pietro, 18 anni, alto e robusto, espressione strafottente, blocca nel corridoio uno di prima e si fa consegnare, con le buone o con le cattive, mille lire. Finiranno nella cassa per finanziare le merende dei "nonni".

Pietro è uno dei personaggi della ricerca "Il bullismo a scuola: fattore di rischio evolutivo?", condotta da alcune docenti universitarie nelle scuole medie superiori sul tema della violenza fisica e psicologica, presentata il 15 dicembre scorso nel corso di una conferenza-dibattito svoltasi presso l’aula consiliare della Provincia di Ancona. Seicentoventidue gli studenti intervistati, di cui 28 disabili, divisi in quattro istituti, che hanno risposto anonimamente a 25 domande riferite alle esperienze dei tre mesi precedenti inquadrate in quattro aree di riferimento (siete stati vittime e in che modo e misura di atti di bullismo? Ne siete stati autori o vi avete partecipato? Avete rivestito solo il ruolo di spettatori? Come vivete il rapporto fra bullismo e handicap?) e analizzate in base a quattro variabili (tipo di scuola, classe di età, sesso, condizione di normalità o disabilità).

Diciamolo subito: l’analisi dello studio, il primo di questo tipo realizzato a livello nazionale, getta una luce sul mondo della scuola capace di svelarne la piena integrazione nel differenziato mondo del sociale, con tutti i condizionamenti e le interazioni che ne conseguono riguardo ai temi e ai valori della comunicazione, della prevaricazione, dei delicati rapporti tra egoismo e solidarietà, integrazione e discriminazione; soprattutto aiuta a capire quanto sia fragile e problematica la fase adolescenziale nel percorso che dovrebbe portare il ragazzo all’equilibrata convivenza nell’universo dei "grandi" e stimola ad adottare adeguati percorsi preventivi.

Ecco, prevenzione è la parola giusta da usare, visto che chi si aspettava l’emergere dalla ricerca di una generazione di santerellini rimane deluso. Il 17,5% degli intervistati, infatti, ammette senza difficoltà di aver rivestito i panni del bullo; il 13% quelli di vittima; il resto, con diversi atteggiamenti, si è limitato ad assistere allo spettacolo. In cima alla classifica degli atti di violenza quella psicologica, in tutte le sue sfumature: dall’offesa generica a quella mirata alla diversità, dovuta a inferiorità per difetti fisici o all’etnia (razzismo o xenofobia più o meno striscianti); dai processi di derisione, esclusione o emarginazione a quelli costellati di bugie e accuse false e infamanti.

Segue la violenza materiale: dal semplice schiaffo alle percosse, fino alla costrizione a compiere atti dolorosi, umilianti, pericolosi (prove di coraggio).

L’aggressività si sfoga per lo più in gruppo di fronte ad un pubblico di spettatori (in media 4 soggetti). Di questi, il 54% osserva, il 21% sta col più forte, prende la parte del bullo di turno (di solito più anziano); solo il 25% difende verbalmente la vittima. Il che la dice lunga sulla difficoltà di innesco dei meccanismi di solidarietà, sullo sfondo di immoralità, tacito consenso o indifferenza in cui spesso si consuma una prevaricazione che a volte assume i toni della ritualità accettata e resta sommersa.

Anche perché, alla domanda su come si risponde all’atto di bullismo, la maggioranza dei maschi si spacca a metà: c’è chi ignora, fa finta di niente tenendo tutto per sé (pochi si sfogano e raccontano: il ruolo di vittima è considerato imbarazzante per l’immagine, disonorevole), e chi reagisce.

Le femmine, nei cui confronti prevale largamente la violenza psicologica, sono invece più propense a chiedere aiuto, a confidarsi con le amiche o con la madre.

Infine la variabile handicap. Dalla ricerca emerge come i disabili siano le vittime preferite degli atti di bullismo e il fatto che li vivano come una specie di predestinazione o con senso di colpa ("Ci prendono di mira - è la frequente risposta - perché siamo noiosi o antipatici").

Ciliegina sull’amara torta: la maggioranza degli atti di violenza fisica o psicologica si verifica in classe; il che la dice lunga sul ruolo passivo dei professori, sulla loro incapacità di osservare, distinguere, valutare adeguatamente il fenomeno e quindi in qualche modo di prevenire, intervenire, reprimere.

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