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QT n. 6, 24 marzo 2001 Servizi

L’animalismo entra nel supermercato?

Dopo la mucca pazza, come cambiano le abitudini alimentari ed il nostro rapporto con gli animali.

Negli anni ’80, la diffusione delle idee ambientaliste registrò una grande impennata in seguito all’esplosione di un reattore nucleare nella centrale di Chernobyl, in Ucraina. Il timore di morire di cancro per il solo fatto di aver mangiato la lattuga del proprio giardino contaminata dalla nube radioattiva che aveva invaso l’intera Europa, fu probabilmente decisivo per far uscire l’Italia dal programma energetico nucleare. I referendum del 1987 furono quasi un plebiscito contro l’energia atomica, fino allora considerata "pulita". Chernobyl contribuì dunque a far uscire l’ambientalismo dalla ristretta cerchia degli attivisti, facendolo diventare patrimonio comune a gran parte dell’opinione pubblica.

Può oggi, l’esplosione del problema dell’Encefalopatia Spongiforme Bovina (BSE) - altrimenti nota come mucca pazza - determinare un cambiamento culturale paragonabile, per dimensioni, a quello causato da Chernobyl?

Il Governo italiano cerca di minimizzare, eppure il calo del consumo di carne (bovina, ma non solo) dimostra che i cittadini non si fidano più di tanto delle rassicurazioni dei ministri. Difficile dar loro torto, visto il comportamento contraddittorio del Governo. Fino a qualche tempo fa venivamo rassicurati del fatto che la carne italiana era sicurissima, ma non se ne capiva il perché: nessun controllo, infatti, veniva effettuato sulle nostre carni (come faceva correttamente notare il Presidente francese Chirac). La demonizzazione della carne straniera appariva insomma come una forma di protezionismo: il sospetto che il Governo italiano fosse preoccupato dei portafogli degli allevatori, più che della salute dei cittadini, era legittimo. In Italia i controlli sono iniziati solo quando l’Unione Europea li ha resi obbligatori ed immediatamente, com’era prevedibile, sono emersi anche da noi i primi casi di BSE. Pochissimi, secondo il Governo, ma che c’entra? Un solo bovino (si veda l’articolo "Mucca pazza: un allarme motivato" sullo scorso numero di QT) può arrivare ad infettare, a causa dei moderni processi produttivi e distributivi, fino a 400.000 persone! E per una malattia per la quale non esistono cure e che ha un periodo d’incubazione che può variare dai cinque ai vent’anni e forse più (ciascuno di noi potrebbe essersi infettato negli anni ’80 e non saperlo), ce n’è abbastanza per giustificare la psicosi. In Inghilterra ragazzi neppure ventenni, magari vegetariani dai tempi della scuola elementare, stanno oggi morendo della malattia di Creutzfeld-Jacob (la variante umana della BSE) per colpa, probabilmente, degli omogeneizzati mangiati quando erano in fasce.

In questa situazione, è inevitabile che il pericolo di contrarre il micidiale morbo stia risvegliando l’attenzione di molti cittadini sulla qualità e la provenienza degli alimenti e stia ponendo numerose domande, anche di carattere etico, sul rapporto tra uomo e animale.

Cosa arriva sulla nostra tavola? Il caso della BSE ha fatto balzare agli occhi di tutti un’angosciante verità: non lo sappiamo. Una volta, una bistecca di manzo era una bistecca di manzo e un pomodoro era un pomodoro, così com’era sempre stato. Oggi non si sa. Quel manzo potrebbe in realtà essere un animale carnivoro, imbottito di farmaci per farlo crescere più in fretta e di chissà quali altre sostanze per dare alla carne un certo colore o sapore. E quel pomodoro potrebbe essere il frutto di una modificazione genetica, per migliorarne l’aspetto e prolungarne la conservazione, o potrebbe essere stato coltivato utilizzando chissà quali concimi, pesticidi o diserbanti, prodotti da chissà quale ditta, chissà dove, nel rispetto di chissà quali criteri. Se poi, anziché di bistecche e pomodori, parlassimo di alimenti più complessi, come le merendine di nostro figlio, buonanotte!

Se dunque la preoccupazione per la qualità e la provenienza dei cibi si sta diffondendo nell’opinione pubblica, quali ne sono gli effetti sul mercato alimentare? Come stanno cambiando i consumi dopo l’esplosione del caso BSE?

La questione non riguarda esclusivamente le carni, ma più in generale l’intero settore alimentare. Ne abbiamo parlato con Roberto, responsabile acquisti del reparto biologico della Famiglia Cooperativa di Caldonazzo, un supermercato che sta scommettendo moltissimo sugli alimenti provenienti da agricoltura biologica e, più in generale, prodotti nel rispetto della natura.

"In realtà - esordisce Roberto - i primi segnali di cambiamento nei consumi si sono iniziati a vedere già dieci anni fa. Prima di allora, la concorrenza avveniva quasi solo sui prezzi, raramente sulla qualità. Oggi, rispetto al ‘90, le cose sono molto cambiate: i consumatori sono più attenti alla qualità degli alimenti. E sono disposti a pagarla".

Qual è l’andamento delle vendite dei prodotti biologici?

"La crescita è impressionante. Soprattutto se penso alla situazione di dieci anni fa, quando alla Famiglia Cooperativa di Caldonazzo partimmo con una sperimentazione circoscritta ad un metro lineare di scaffale: metà della merce esposta rimaneva invenduta. A quei tempi chi acquistava i prodotti biologici era visto come un eccentrico, quasi come l’appartenente ad una setta religiosa. Da allora, però, la crescita dei consumi di prodotti biologici è stata inarrestabile. I dati ufficiali parlano di un incremento annuo del consumo di prodotti biologici in Italia pari al 25%, una cifra enorme. Dal 1993 le aziende biologiche italiane sono passate da 4.000 a 50.000, gli ettari di terreno coltivati secondo i criteri dell’agricoltura biologica da 70.000 ad un milione."

L’allarme per la BSE ha comportato una variazione significativa dei consumi?

"Ogni volta che in questi anni è scoppiato uno scandalo alimentare, anche non importantissimo, abbiamo registrato un picco nei consumi di prodotti biologici, che però si riassestava non appena calava l’allarme. Con la BSE l’impennata è stata superiore rispetto ai casi precedenti (con la carne biologica non riusciamo a star dietro alle richieste dei clienti), ma anche questa volta per fare un bilancio bisognerà attendere che il tema esca dai riflettori della cronaca. Diciamo che la BSE è stata un monito, che ha contribuito a sensibilizzare i consumatori, ma il suo impatto sul mercato è stato quello di accelerare un processo già iniziato. Sui prodotti biologici oggi stiamo entrando in una fase nuova, quella dell’ingresso delle grandi aziende, che hanno fiutato l’affare. In certi casi si è già arrivati all’eliminazione dal mercato dei prodotti non biologici: alcune grandi aziende, fino a poco tempo fa, affiancavano il prodotto biologico a quello tradizionale; ora invece sono presenti sul mercato col solo prodotto biologico. E’ il caso, ad esempio, della COOP, coi succhi di frutta ed il cacao.

Ma stiamo entrando in una fase nuova anche per quanto riguarda la distribuzione. Fino a ieri i prodotti biologici si trovavano quasi esclusivamente nei negozi specializzati. Ora invece anche le grandi catene di distribuzione stanno iniziando ad investire sul biologico. Grazie all’offerta di prodotti biologici, abbiamo acquisito molti nuovi clienti che si fanno anche trenta chilometri per venire apposta a Caldonazzo a fare la spesa: anche questo sta a significare che investire sul biologico è una scelta vincente. Non mi sorprendo, quindi, del fatto che anche altri stiano oggi cercando di intraprendere la strada tracciata da noi. Non sarà facile, perché le aziende produttrici più rinomate selezionano con grande cura i punti vendita dove piazzare i loro prodotti e spesso evitano le grandi catene. Avendo iniziato molti anni fa, noi siamo dentro il circuito specializzato e facciamo quindi eccezione."

Gli alimenti biologici sono conosciuti per essere magari più gustosi, ma più bruttini e soprattutto molto più costosi. Non è che, per questi motivi, sono destinati ad occupare anche in futuro soltanto un settore di nicchia, quello dei consumatori più sensibili?

"Rispetto ai primi tempi le cose sono molto cambiate. La qualità dei prodotti biologici è enormemente migliorata, anche dal punto di vista dell’aspetto, ed i prezzi sono diminuiti, fino ad essere ormai competitivi coi prodotti tradizionali, quelli ovviamente di elevata qualità. Inoltre, da questo punto di vista, si deve tener conto che si sta progressivamente innalzando il livello medio delle richieste dei consumatori: mentre si assiste all’espansione del biologico, v’è una contrazione della fascia di prodotti di basso prezzo. Insomma, se la questione riguardasse soltanto una nicchia di consumatori disposti a pagare di più per avere qualità, ci si sarebbe dovuti aspettare che a subire i danni dell’espansione del biologico fossero i prodotti di fascia alta. Ed invece così non è, perché la crescita del consumo di prodotti biologici fa parte del più generale processo di crescita dell’attenzione sulla qualità. Fino a qualche anno fa, poi, ad acquistare i prodotti biologici erano spesso coloro che seguivano ferree diete salutiste: niente carne, niente alcol e così via. Successivamente, un po’ alla volta, si sono avvicinati anche i consumatori tradizionali. E’ un processo che ho potuto osservare attraverso il mio lavoro: i clienti ci hanno chiesto, ad esempio, di procurare vini biologici, mentre la richiesta di carne biologica è iniziata ad emergere già prima che scoppiasse il problema della BSE."

Da dove provengono i prodotti biologici? La crescita del loro consumo sta avendo effetti anche sull’agricoltura trentina?

"I prodotti sono quasi tutti italiani, ma solitamente provengono da fuori provincia. Solo ora cominciamo a trovare aziende agricole trentine che coltivano coi metodi dell’agricoltura biologica. Purtroppo, cambiare la mentalità degli imprenditori agricoli è difficile. Eppure la strada è obbligata: in Trentino o capiamo che si deve puntare sulla qualità, oppure saremo tagliati fuori dal mercato. Per fare un esempio, ormai siamo invasi dalle mele provenienti dai paesi dell’est, a prezzi stracciati: come facciamo a reggere il confronto se non offriamo qualcosa di diverso? Per il Trentino, investire sull’agricoltura biologica significherebbe mettersi al riparo dalla concorrenza, tutelare l’ambiente, avere uno straordinario ritorno d’immagine nel turismo. Ed invece siamo in certi casi più indietro di altre regioni. Già il vicino Alto Adige è più avanti di noi. Certo, il periodo di transizione comporta dei costi, perché prima di poter usufruire del marchio biologico la legge prevede, per ‘disintossicare’ il terreno, tre anni di coltivazione senza l’uso di prodotti chimici, tre anni nei quali gli imprenditori devono sopportare costi maggiori senza potersi giovare del marchio. In ogni caso, dopo questo sacrificio, ci si trova a far parte di un mercato ricco di prospettive, anziché in uno sottoposto alla feroce concorrenza dei paesi dove è minore il costo del lavoro."

(Ad intervista conclusa e rileggendo quanto dice Roberto, ci viene spontanea una riflessione: che peso gioca la politica di assistenzialismo pubblico di mamma Provincia nella minore propensione all’innovazione degli agricoltori trentini rispetto a quelli di altre regioni? Insomma, appurato che il biologico è un affare, tanto che ci si stanno buttando anche le grandi aziende, per quale motivo sono ancora pochi gli agricoltori trentini che si convertono al biologico? Probabilmente manca l’incentivo economico, poiché grazie agli aiuti della Provincia si riesce a stare tranquillamente sul mercato anche con la produzione tradizionale. Per l’agricoltura sembra quindi valere lo stesso ragionamento fatto sul turismo, nel quale si continua ad investire sul settore in crisi dello sci perché si usufruisce dei contributi provinciali. Tutto questo non significa che un’economia caratterizzata da una forte presenza del pubblico sia necessariamente perdente: dipende da quali scelte politiche si assumono. E qui si spiega forse la diversità tra il Trentino e l’Alto Adige).

Le persone che acquistano i prodotti biologici lo fanno soltanto in nome della propria salute? Quanto conta la motivazione legata alla salvaguardia ambientale?

"Chi sceglie di acquistare i prodotti biologici è solitamente il consumatore più attento ed informato, con una sensibilità ambientale senz’altro superiore alla media. In ogni caso, distinguere le due motivazioni è impossibile: gli alimenti biologici sono considerati salubri proprio perché sono stati prodotti nel rispetto dell’ambiente. E per rispetto dell’ambiente s’intende tutto, comprese le confezioni, per le quali sono preferite quelle riutilizzabili o riciclabili. Per soddisfare le richieste dei clienti, ad esempio, abbiamo dovuto andare alla ricerca di confezioni in cartone per la verdura e la frutta, da utilizzare al posto del polistirolo. Non ci è stato facile, poiché non riuscivamo a trovare un’azienda che producesse quel tipo di contenitori. Alla fine, però, i clienti hanno apprezzato lo sforzo."

Da qualche tempo, sugli scaffali di molti negozi sono comparse le uova di galline allevate a terra, mentre nel dépliant che pubblicizza la carne biologica del vostro supermercato si legge che gli animali sono stati allevati prendendosi cura del loro benessere psicofisico. Si sta diffondendo una cultura animalista?

"Anche in questo caso distinguere è impossibile. Chi si avvicina ai prodotti biologici abbraccia l’idea che la salute dell’uomo, la tutela dell’ambiente, il rispetto degli animali ed anche, più banalmente, la bontà di ciò che si ritrova nel piatto, sono tutti fattori strettamente legati tra loro."

Tuttavia, è indubbio che il problema della BSE ha spinto molte persone a porsi delle domande di carattere etico sugli animali. La BSE ha sbattuto in faccia all’intera opinione pubblica una cosa che, fino a qualche tempo fa, erano in pochi a sapere: negli allevamenti si utilizzano mangimi derivati dalle carcasse degli animali morti. In pratica, i bovini sono alimentati con carne bovina, sono cioè stati trasformati da erbivori in carnivori, oltretutto cannibali. Una cosa raccapricciante, alla quale la natura, alla fine, si è ribellata nel modo più severo, mettendo in circolazione una malattia mortale. Ecco perché non abbiamo mai voluto utilizzare il termine "mucca pazza", preferendo la dizione scientifica BSE: pazzo è l’uomo, non la mucca.

La lezione della BSE può servire a far sì che le idee animaliste, sino ad oggi spesso sbeffeggiate, inizino a trovare ascolto in fasce più vaste dell’opinione pubblica? L’uomo, in quasi tutte le civiltà, si è sempre considerato un essere superiore rispetto agli animali. Tuttavia, fino al secolo scorso vi era quanto meno un rapporto basato sul rispetto, dovuto alla consapevolezza che agli animali era legata la sopravvivenza stessa degli uomini. Al rapporto con gli animali, compresi quelli d’allevamento, quasi tutte le civiltà avevano pertanto attribuito una qualche forma di sacralità, nel senso laico del termine. Anche nella tradizione contadina locale, fino al momento dell’abbattimento, l’animale di casa era quasi considerato un appartenente alla famiglia. E l’abbattimento, non a caso, era spesso associato a momenti rituali. Con la società industriale è cambiato tutto. Gli animali sono diventati degli oggetti, il rapporto tra uomo e animale si è completamente alienato, gli allevamenti sono diventati catene di montaggio. E se questo è il progresso, allora è facile controbattere che morire della sindrome di Creutzfeld-Jacob ne è il prezzo.

Di questi argomenti abbiamo parlato con una animalista militante, Maddalena Di Tolla, delegata di Trento della Lega Italiana Protezione Uccelli.

E’ ora che ci svegliamo, non è possibile che continuiamo a non chiederci che cosa mangiamo. Non mi riferisco alla nostra salute. Mi riferisco al fatto che dietro all’hamburger o allo spezzatino ci sono degli esseri viventi che hanno sofferto, che sono stati sottoposti alle più atroci sevizie, che sono stati privati addirittura dell’elementare diritto al rispetto della loro natura. Gli animali sono esseri viventi dotati di cervello: pensano, soffrono, provano emozioni. Sulla base di quale presunzione la specie umana ritiene di poter disporre delle altre specie animali a proprio piacimento?"

Ritieni che lo scoppio del problema della BSE possa contribuire a cambiare questa situazione, a creare un rapporto diverso tra gli esseri umani e le altre specie animali?

"Non nutro molta fiducia. La discussione è sinora avvenuta soltanto pensando ai rischi per la salute dell’uomo. Così è accaduto quando è andata bene, perché in molti casi non si parlava neppure di quello, ma soltanto del danno economico per gli allevatori. In tutto questo periodo non mi è capitato neppure una volta, seguendo gli organi di informazione, di sentire o leggere una riflessione sui diritti degli animali. Eppure, con quello che è successo, di motivi per affrontare questo argomento ce ne sarebbero stati. Di sicuro c’è che in Italia siamo molto indietro su questi argomenti. Recentemente le città di Hollywood e di Berkeley, in California, hanno stabilito nei loro regolamenti comunali l’utilizzo del termine ‘tutore’, in luogo di ‘padrone’, per indicare il rapporto tra le persone ed i relativi animali domestici. Si tratta di una piccola cosa, ma indicativa di quale sia il livello del dibattito all’estero. Quando abbiamo avanzato una proposta simile al Consiglio provinciale di Trento, siamo stati irrisi".

Lasciamo stare la politica. Non credi che, almeno tra i cittadini, la BSE abbia provocato qualche riflessione?

"Questo è senz’altro vero. Grazie alla BSE l’intera opinione pubblica è venuta a conoscenza delle atrocità che, prima, eravamo quasi solo noi animalisti a denunciare. La mucca ci ha aiutato a denunciare la pazzia dell’uomo. E’ però difficile dire se tutto questo sarà sufficiente per provocare un cambiamento di mentalità, un sussulto di coscienza. Nella maggior parte dei casi, poi, la questione è ancora affrontata con una logica antropocentrica: si condannano i metodi di allevamento non già in nome dei diritti degli animali, bensì soltanto perché si ritiene che possano esservi dei pericoli per la salute degli esseri umani. D’accordo, se questo può servire a ridurre le violenze verso gli animali ben venga, ma il problema di impostare un diverso rapporto tra gli esseri umani e gli animali rimarrebbe ancora irrisolto".

Non dovreste essere contenti del fatto che si dimostri che la salute degli uomini può essere compromessa se non si rispettano gli animali?

"Il problema è che questo non basta, se non si diffonde un’autentica cultura animalista. Se permanesse la logica antropocentrica si finirà, al massimo, col mettere al bando le farine animali o a controllarne la sicurezza, ma tutto il resto rimarrà invariato. Sia chiaro, non sto dicendo che la salute dell’uomo non sia importante: al contrario, sto dicendo che bisogna rendersi conto che c’è una totale identità tra il benessere degli animali e la nostra qualità della vita. Non pretendo che dall’oggi al domani tutti diventino vegetariani o di fare chissà quali rivoluzioni. Per cominciare si potrebbero affrontare le cose più insopportabili. Ad esempio abolire la vivisezione e cambiare radicalmente questo sistema di allevamento. Vietare l’utilizzo delle sostanze che servono per accelerare la crescita, lasciar pascolare gli animali in spazi aperti, consentire ai cuccioli di essere allevati dalle madri e così via. Tutto questo significherebbe ridurre la produzione di carni? E che male ci sarebbe?

Siamo una società di ciccioni che muoiono d’infarto per il colesterolo. A mangiare meno carne ci guadagneremmo tutti quanti in salute".

L’argomentazione è convincente.