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QT n. 17, 13 ottobre 2001 Servizi

“Ribelli senza confine”: la Resistenza fuori dal mito

Un convegno su resistenti e collaborazionisti, carnefici e vittime. Ma soprattutto sull'"area grigia" degli incerti, la maggioranza della popolazione.

Il Convegno Ribelli di Confine - La Resistenza in Trentino, è stato organizzato dal Museo storico di Trento e dal Comune di Borgo. In Valsugana furono uccise Ancilla Marighetto e Clorinda Menguzzato, “Ora” e “Veglia”, le due più giovani medaglie d’oro tra le donne partigiane italiane, e Borgo è la patria dei fratelli Gozzer, Giuseppe, Vittorio, Giovanni, che alla Resistenza parteciparono attivamente.

La strage di Malga Zonta.

Le relazioni hanno affrontato in modo nuovo il problema, attente a documentare i comportamenti dei carnefici e delle vittime, dei resistenti e dei collaborazionisti, ma soprattutto di quell’ “area grigia” di incerti, che costituirono la maggioranza della popolazione. La pubblicazione degli atti fornirà un ampio materiale di studio.

Il convegno aveva anche un obiettivo didattico: Nicoletta Pontalti e Pierluigi Pizzitola hanno presentato il laboratorio storico del Museo e dell’Istituto Degasperi. Il coinvolgimento degli insegnanti e degli studenti è però riuscito solo parzialmente. Su come interessare i ragazzi di oggi ai temi di storia contemporanea occorre riflettere.

In una recente, interessante, lettera a l’Adige, una classe del liceo Arcivescovile riconosce che, nella loro scuola, la prima assemblea sull’attentato terroristico a New York non è riuscita: gli studenti erano distratti perché i relatori pretendevano di spiegare quell’evento facendo riferimento ad eventi storici troppo lontani. “A noi interessavano le conseguenze del grave attentato e i motivi che hanno spinto i talebani a compierlo”. A cosa serve, insomma, la storia?, è la domanda. D’altra parte i giovani devono sapere che la storia contemporanea, -la Resistenza, gli attentati, le guerre- i loro insegnanti a scuola non l’hanno sentita mai raccontare. Non possono fare riferimento ad un modello, né per imitarlo né per evitarlo: devono proprio sperimentare. Essi sono chiamati, per la prima volta, a un impegno, necessario e difficile.

La lettura dalla cattedra indispone i ragazzi (e anche gli adulti): il rischio è che non partecipino mai più, per tutta la vita, a un convegno di storia. Eppure, divisi per gruppi, anche con i soli materiali forniti nella cartella, si poteva organizzare, per loro, un momento di analisi delle fonti, sicuramente più produttivo del semplice ascolto.

Fortunatamente, infine, non c’erano giovani, pur invitati, alla sezione conclusiva. Gli addetti ai lavori, e il pubblico adulto presente, non si sono lasciati impressionare dall’ennesima polemica imbastita su Malga Zonta da Francesco Piscioli. “Vergogna” - ha gridato rivolto agli storici e al Comune di Borgo. Quest’ultimo ovviamente non ha replicato. Gli storici lo hanno fatto tacere un po’ bruscamente. Un eventuale ragazzo presente, ignaro dei riti e dei precedenti, non ne avrebbe cavato una buona impressione.

Nel linguaggio storico Resistenza significa, per antonomasia, la ribellione dei partigiani che combattono per liberare i vari paesi europei occupati dai nazisti durante la seconda guerra mondiale.

In Italia la questione è però più complessa: la Resistenza inizia l’8 settembre del ’43, contro i tedeschi, i quali però fino a quel giorno hanno combattuto al fianco degli italiani. Fu perciò un “tradimento” dell’alleato, accusarono fin d’allora quegli italiani, i fascisti inquadrati nella Repubblica Sociale di Mussolini, che rimasero con Hitler fino alla sconfitta finale. Disposti a morire e ad uccidere, per il Führer e per il Duce, a cercare “la bella morte”. I partigiani, in Italia, dovettero così combattere contro altri italiani, schierati, per coerenza e onore, sul fronte opposto. Fu autentica “guerra civile”, che richiese un sovrappiù di violenza, perché divise la nazione, le famiglie, i paesi.

L’accusa di tradimento ci accompagnò per i lunghi anni seguenti. Il giorno in cui si tiene il convegno di Borgo Valsugana, si discute in Parlamento la legge sulle rogatorie internazionali, quella che, voluta dal centro-destra, rischia di favorire terroristi e mafiosi. L’Italia finirà umiliata agli occhi della comunità occidentale, commenta su la Repubblica Massimo Riva, perché, anche in questa occasione, si dimostra alleato inaffidabile, che “non finisce mai le guerre dalla stessa parte dove le ha cominciate”.

Che quel cambiamento di fronte, l’8 settembre, sia stato un comportamento di cui vergognarsi, almeno un poco, è diventata convinzione diffusa, anche in ambienti che non simpatizzano certo per il fascismo. “Quali furono le colpe e i crimini della Resistenza?” - chiese uno studente, a Trento, alcuni anni fa, pensando a quel “tradimento”, in un’assemblea affollata di giovani, a Vittorio Foa, che della Resistenza fu uno dei protagonisti. E l’anziano militante di Giustizia e Libertà, incarcerato per anni nelle prigioni fasciste, e poi sindacalista e parlamentare della sinistra, rispose al ragazzo, senza adirarsi né scandalizzarsi, che i partigiani commisero errori, molti, crimini mai.

Fu colpa, nel caos generale, politico ed etico, dopo l’otto settembre, schierarsi, senza che nessuno ti costringesse, con gli irregolari, e resistere a chi ti voleva arruolare, presentandosi come autorità regolarmente costituita?

Fu colpa fare una scelta antinazista, contro l’alleato di ieri, e antifascista, cioè contro il te stesso di ieri, il fascismo in cui eri cresciuto, e in cui avevi anche creduto? Fu in qualche modo una “conversione” quella operata da una parte degli italiani. Da una minoranza, certo, perché il contesto non favoriva le scelte difficili. Erano più facili, e tuttavia anch’esse rischiose, l’obbedienza all’autorità che comandava e minacciava, o, tirandosi fuori, l’attesa che quella guerra finisse, e intanto salvare la pelle, a te e ai familiari.

C’è una qualche analogia con la più famosa conversione della letteratura italiana. Quando, nei “Promessi Sposi”, l’Innominato decide di liberare Lucia, in qualche modo “tradisce” don Rodrigo, perché è per consegnarla a quel tiranno che l’ha sequestrata. Ma non è forse ammirevole, eticamente, quel tradimento, se fatto per dare la libertà ad un’innocente? Anche una nazione può scoprire valori che valgono più della parola data ad un dittatore.

In Trentino e in Alto Adige la situazione è ancora più complessa che nel resto d’Italia. Il convegno lo ha documentato con relazioni sulle città, la Valsugana, il Primiero, il Basso Sarca, gli Altipiani, le valli ladine, la val di Non, la Rendena, le Giudicarie. Infatti, le province di Trento, Bolzano, Belluno, divengono, dopo l’otto settembre, la “zona d’operazioni delle Prealpi”, l’Alpenvorland, governata dal commissario supremo Franz Hofer, un nazista tirolese nominato da Hitler, e da lui direttamente dipendente. L’occupazione nazista prefigura, finita la guerra, l’annessione definitiva dell’area al grande Reich della Germania.

I trentini ricordano d’aver vissuto quegli anni, terribili in tutta Europa, dal ’43 al ’45, in una “nicchia protetta”: governati da un prefetto locale, l’avvocato Adolfo De Bertolini, immuni da trasferimenti coatti, rispettati nelle proprie tradizioni cattoliche e filoasburgiche, senza fascisti fra i piedi (quel partito, mai amato durante il ventennio, fu proibito dai tedeschi), con i giovani inquadrati nel Corpo di sicurezza trentino, istituito per mantenere l’ordine pubblico. Molto più drammatici, nella memoria dei trentini, furono gli anni della prima guerra mondiale. Quella situazione, al confine, di relativi benessere e sicurezza, venne però pagata con la “vergogna politica”, ha ricordato Vincenzo Calì. Nella nicchia protetta, i partigiani, pochi e disorganizzati, finirono per essere considerati un corpo estraneo, ribelli venuti da fuori, un pericolo per la vita, quasi normale, di ogni giorno. Franz Hofer non chiedeva molto, tutto sommato, solo di stare fermi e ordinati, e attendere.

Nelle relazioni al convegno compaiono gli eroismi di chi ha lottato per la libertà. I soldati delle caserme di Trento, l’8 settembre, invece che consegnare le armi, combattono (Luca Merler). I giovani studenti, a Riva, attorno a Gastone Franchetti, agiscono fino alla strage del 28 giugno del ’44 (Giuseppe Ferrandi).

L'avv. Angelo Bettini, torturato a morte da nazisti e repubblichini.

Ma ormai la nostra attenzione va in cerca dei buchi neri, della storia grigia del Trentino in quegli anni. I giovani del CST non vennero arruolati per garantire sicurezza ai trentini, ma per combattere i partigiani nel Veneto, “gli italiani”. A Rovereto, ha raccontato Fabrizio Rasera, un docente di liceo dedicò tempo e cultura a tradurre in latino i discorsi pronunciati da Mussolini per la conquista dell’Etiopia. E in carcere l’avvocato Bettini ci finì perché qualcuno fece la spia, e fu torturato fino alla morte non solo dai tedeschi feroci, ma da pacifici cittadini altoatesini, da repubblichini toscani. In Val di Non, racconta Sara Ferrari, l’armata bianca è organizzata dai cattolici per difendere i paesi dai tedeschi, ma anche dagli altri gruppi di partigiani, considerati dei ladroni dai contadini.

La situazione è così complicata che nelle valli ladine, dove il nemico tradizionale è l’italiano, non il tedesco, nemmeno chi si oppone al nazismo (gli internati, i disertori), si identifica con la Resistenza partigiana, che anzi condanna, perché provoca rappresaglie tedesche (Luciana Palla). E Christoph von Hartungen spiega che in Alto Adige-Sud Tirolo le due Resistenze, debolissime, non si incontrarono mai, tanto antitetici erano i loro obiettivi. Quella italiana combatte perché la regione torni all’Italia, quella tedesca per la sua annessione all’Austria. Alla fine della guerra i resistenti tedeschi rifiutarono il riconoscimento della Commissione patrioti perché fondato sull’affermazione di aver combattuto per la liberazione d’Italia!

Sono complessità derivanti dai “confini” che separavano, e legavano anche, i luoghi, la memoria, le coscienze di allora, e di oggi. Qui passava il confine fra Italia e Austria, fra Trentino e Tirolo, fra l’Alpenvorland e la Repubblica sociale. E nello stesso paese confinavano i nostalgici dell’Impero Austro-ungarico e coloro in cui l’identità italiana era forte.

Possiamo ripetere ancora che la Repubblica, cioè i diritti di cittadinanza, di tutti, nasce in Italia dalla resistenza al nazismo e al fascismo? Che anche il nostro Statuto d’autonomia, scritto nella Costituzione, ha quel fondamento? Lo dobbiamo ripetere, senza vergogna, consapevoli però che quello non fu un idillio in via della conciliazione, ma una guerra. E ogni guerra, lo sapeva già Erasmo agli albori dell’età moderna, può inquinare gli animi anche di chi combatte dalla parte della ragione, della libertà e della giustizia.

Quando Primo Levi si domanda se nella storia esiste una violenza utile, risponde: “Purtroppo sì”. In quel purtroppo c’è non solo la differenza fra i combattenti della Resistenza e coloro che la violenza l’avevano iscritta nel loro codice culturale, ma anche la consapevolezza che, proprio perché violenza fondativa, essa trascinerà lungo la storia conseguenze perverse.

Più la ricerca storiografica approfondisce lo studio di quegli anni, più la Resistenza cessa di essere un mito, e ci appare un crocevia problematico, carico di divisioni, di limiti, di progetti anche caduchi, anch’esso autobiografia contraddittoria della nazione italiana. Snodo decisivo, capace di consegnare alle generazioni più giovani la libertà di confrontarsi sullo stesso evento fondatore, di riconoscerne i meriti, di criticarlo anche. Di vederne, soprattutto, umilmente, gli aspetti drammatici di guerra civile. Proprio nei giorni in cui molti ripropongono come fatale, o addirittura auspicabile, uno “scontro di civiltà” fra l’Occidente e l’Islam.