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QT n. 9, 3 maggio 2003 Servizi

25 aprile e democrazia

La Resistenza non fu “un evento di parte” come qualcuno oggi sostiene.

A Trento, il 25 aprile, la manifestazione su "l’attualità della Resistenza" è affollata, anche di giovani. Ugo Tartarotti, Renato Ballardini, Alberto Pacher, Giuseppe Ferrandi ripetono che quell’evento rimane il fondamento della libertà, della democrazia, della pace, per tutti gli italiani di oggi. Quelli sono i valori della Costituzione, del patto che ci unisce in nazione, del progetto che ci stringe in società, su cui poi innestiamo i conflitti, legittimi, che ci fanno diversi, in una storia ormai lunga.

Ma di quegli italiani, a confermare il valore di quel patto e di quel progetto, molti oggi non sono presenti. E’ un’assenza che ci rende tutti più deboli, disorientati di fronte al futuro, incerti nel valutare un passato che credevamo, in qualche modo, intriso di valori unitari.

Perché quest’assenza? "La Resistenza è un evento di parte, incapace di unire, e di pacificare", si obietta, a giustificazione, dalle forze di destra. Per il Presidente del Consiglio la Costituzione è "sovietica", cioè comunista. "Sono contento di vivere in un paese libero, ma non lo devo certo ai comunisti" - dichiara Maurizio Perego, consigliere provinciale di Forza Italia, che si trasferisce quel giorno in Bondone, "a ringraziare gli americani".

Rispondere con l’invettiva non ci consola per questa sconfitta, nostra, che tale è questa assenza. Sconfitta postuma di tutti coloro che nei CLN si opposero. Sconfitta di Enrico De Nicola, di Alcide De Gasperi, di Umberto Terracini, il liberale, il cattolico, il comunista, che firmarono insieme la Costituzione. Sconfitta di tutti quelli che, lungo i decenni, il 25 aprile hanno partecipato insieme alle manifestazioni, appesantite forse da ritualismo e da retorica, ma unitarie, talvolta polemiche e appassionate.

"Verrà il giorno in cui dovremo vergognarci di aver combattuto contro il fascismo, e costituirà colpa l’essere stati in carcere e al confino?", si domandava, preveggente, Sandro Pertini, già nel 1946. Riflettendo "sul concetto di storia" Walter Benjamin affermava che "nemmeno i morti saranno sicuri dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere."

La storia non procede in un "tempo omogeneo e vuoto": il ricordo del passato è carico di "adesso". Ricordiamo in modo diverso, perché siamo diversi. Quei posti vuoti, il 25 aprile, a Roma e a Trento, ci pongono una grande domanda: è superata, "inattuale", la Costituzione? Sono mutate così in profondità le forze che hanno sottoscritto il patto "antifascista"? La storia di questi anni ha dunque diviso, e stravolto, la società fino al punto che le sue componenti non si riconoscono più nulla in comune?

Ma che cosa allora ci tiene insieme, ancora, fino a quando, per quale scopo? Qual è la Costituzione nuova cui ambiscono, sotterranea, che sta formandosi nelle coscienze di quelli che non si riconoscono più nell’antica?

Tentare una risposta spetta a chi continua a riconoscere "l’attualità della Resistenza", perché le loro domande, ruvide, insensate persino, sono fatte sotto lo sguardo dei giovani d’oggi. Vanno cercate con serietà le risposte, più che per rispetto nei confronti di Perego, di de Eccher, di Berlusconi, per la cura che meritano i giovani che votano, attratti, entusiasti, per loro. Risposte disposte, umilmente, a prendere i giovani lì dove si trovano, dove la scuola li ha lasciati, espulsi, o portati.

L’insegnamento della storia del Novecento fu una grande, e contrastata, riforma dei governi dell’Ulivo, ed è in vigore da appena tre anni. Per un giovane ingegnere della mia scuola, il fascismo è la bonifica delle paludi pontine, e la costruzione, lungo le strade, delle casette rosse dell’Anas.

Le risposte vanno date con l’obiettivo primario, io penso, non di spostare i giovani politicamente a sinistra, ma di far loro scoprire il nesso, in Italia storicamente inscindibile, fra antifascismo, Resistenza, e democrazia. Che poi votino a destra, se credono, ma da antifascisti, e capaci di modificare, molecolarmente, le loro forze politiche di riferimento. In modo che anch’io possa, un giorno, il 25 aprile, sussurrare in piazza un applauso ai loro leader presenti.

E che scoprano, anche i nostri ragazzi, che ad essere sconfitta, ed assorbita, dal regime fascista, prima ancora dei sindacati, dei partiti della sinistra, del movimento cattolico, fu proprio la destra conservatrice, quei liberali moderati che nel rapporto fra autorità e libertà privilegiavano il primo polo senza però annullare il secondo. Fu questa, nel 1996, la lezione indimenticabile tenuta agli studenti di Trento, all’Auditorium, da Vittorio Foa. A un ragazzo che domandava a lui, incarcerato otto anni per antifascismo, partigiano nelle file di Giustizia e Libertà,membro dell’Assemblea Costituente, quali erano state le colpe della Resistenza, quel vecchio, quasi cieco, dopo averlo ascoltato in silenzio, rispose con serietà: "Abbiamo commesso degli errori, non delle colpe. No, colpe proprio non direi".

Italo Calvino, nel suo romanzo "Il sentiero dei nidi di ragno",
ci aveva già insegnato che talvolta fu non la "convinzione", ma un "caso", un "accidente" a determinare le scelte diverse, di chi si unì in montagna ai resistenti, e di chi si schierò dalla parte dei nazisti e dei fascisti. E che la banda dei partigiani del Dritto era "un distaccamento di uomini poco fidati, con un comandante meno fidato ancora".

Poi, oltre la convinzione, il caso, l’occasione, però "c’è la storia", spiega il commissario politico Kim a Ferriera: "C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra".

La spiegazione non ci tranquillizza in modo definitivo, ci dà però consapevolezza storica, ci spinge alla compassione per l’altro, che riconosciamo né belva né macchina, ma uomo "a rischio", come noi.

Nel dibattito di questi giorni, qualcuno ha colto una contraddizione insanabile fra il movimento della Resistenza e il movimento per la Pace. Come potete - l’accusa è rivolta soprattutto ai ragazzi - essere contemporaneamente pacifisti, antifascisti, e antiamericani? La domanda è seria, e per gli operatori di pace in cerca di una risposta, è uno stimolo alla maturazione.

In Trentino Cristano de Eccher ha riproposto il ragionamento più intrigante nei confronti della Resistenza: "Noi di destra abbiamo sempre avuto rispetto per l’avversario leale, coraggioso, generoso". Esso fa breccia, io lo so, nelle menti dei ragazzi, e non solo, perché è disposto a riconoscere coraggio nell’avversario, in cambio di un riconoscimento uguale e simmetrico.

La vicenda più nota, a questo proposito, è quella di Carlo Mazzantini. Questi è un intellettuale romano, nato e cresciuto in una famiglia borghese durante il fascismo: l’8 settembre 1943 si arruola nelle camicie nere, fedele fino all’ultimo a Mussolini e a Hitler, e partecipa alla "guerra civile" contro i partigiani. Il "tradimento" compiuto dal Re e da Badoglio spinge il giovane Mazzantini a schierarsi con la Repubblica sociale italiana, in nome dell’onore da salvare, per riscattare con un gesto quella vergogna, in cerca di una "bella morte", eroica, da soldato sul campo, fronte al nemico. Mazzantini è disposto a riconoscere all’altra minoranza, quella contrapposta alla sua, dei partigiani, la stessa indignazione per la vergogna subita, la stessa motivazione al combattere: salvare con un gesto coraggioso l’onore personale e della nazione.

I reduci di Salò, negli anni della Repubblica, hanno potuto esprimere liberamente l’autenticità della loro storia. Hanno anche preteso che la loro idea di patria, di onore, di coraggio, venisse equiparata all’ansia che animava la Resistenza.

Io penso che l’Italia repubblicana non possa "condividere", né "equiparare", ma che debba ascoltare e "comprendere" storicamente quelle ragioni. Io ho conosciuto tardi i libri di Carlo Mazzantini ("A cercar la bella morte", Mondadori 1986; "C’eravamo tanto odiati", Baldini &Castoldi 1997, scritto insieme al partigiano Rosario Bentivegna), ma sono stati illuminanti. Attraverso la loro lettura ho capito meglio la storia d’Italia, del fascismo, della Resistenza, del dopoguerra, fino alle sedie vuote di quest’anno.

Mazzantini, (e de Eccher), elogia il "coraggio" dei combattenti, degli uni e degli altri. Il suo disprezzo si scarica invece su chi non si schiera attivamente, sugli attendisti e sugli imboscati, la "zona grigia" del qualunquismo, dell’antipolitica. A lui riesce insopportabile, da un punto di vista antropologico, la "guerra civile" fra italiani, che pure riconosce nel suo carico orrendo di violenze contrapposte. L’ideale sarebbe stato, essendo ormai impossibile combattere uniti, come italiani, sullo stesso fronte, "aspettare in dignitoso silenzio la fine delle ostilità".

L’obiezione da muovere a questo atteggiamento è etica innanzi tutto. Il "coraggio", la "lealtà", la "generosità", non hanno valore morale di per sé, perché in sé non sono virtù. Feroci malfattori, assassini, e terroristi possono essere coraggiosi. Per qualificare il coraggio come morale abbiamo bisogno di aggiungere un aggettivo: parliamo di "coraggio morale" -perché esiste anche un coraggio amorale, ce lo ha spiegato in questi giorni Susan Sontag in un bell’articolo su la Repubblica.

Per questo è solo Rosario Bentivegna, il partigiano interlocutore di Mazzantini, che sa portare il peso di un’Italia divisa, affrontare il dovere terribile ma necessario di colpire a morte un altro italiano, e riconoscere il contributo di chi, non armato, solidarizza anche faticosamente e tortuosamente con la Resistenza. Anche la vasta, maggioritaria, "zona grigia" degli attendisti, incerti e confusi nei due anni di fuoco, seppero recuperare nel dopoguerra i partiti di massa antifascisti (la Dc innanzi tutto, ma anche i partiti della sinistra). Operazione che fu palla al piede, freno alle riforme, ma anche vittoria, per nulla scontata, della democrazia.

L’attualità della Resistenza ci richiama così a un problema più generale, quello del rapporto fra verità, storia, giustizia. Fu Marc Bloch, nella sua "Apologia della storia", a distinguere nettamente il lavoro dello storico da quello del giudice. La comprensione cui lo storico aspira implica un atteggiamento di identificazione empatica con il punto di vista degli altri, anche gli avversari più crudi, ed è quindi incompatibile con l’esigenza di assolvere o condannare. La verità storica non pone un punto fermo alle vicende in discussione, è una "revisione" continua, perché il suo canone è più ambiguo di quello della giustizia penale.

Ma lo stesso Marc Bloch, come cittadino, si impegnò e morì lottando contro i nazisti. La memoria sociale, anche della Resistenza, rievoca, tramanda, "mitizza" gli eventi, perchè il discorso pubblico ha bisogno di valori etici e politici su cui fondare la coesione della nazione. La memoria però, in Italia, su quei fatti è divisa.

Siamo disponibili, a sinistra, ad accettare questa tensione perenne fra memoria sociale, storiografia, etica (e pratica) della giustizia, per dimostrare che noi teniamo sul serio a che il 25 aprile diventi la festa di tutti, e che le sedie siano occupate da chi oggi le lascia vuote?

Intanto, però, a questo punto della ricerca, della tensione fra verità e giustizia, a Cristano de Eccher posso dire questo. Lui organizza, in Trentino, convegni culturali (i manifesti blu della "destra sociale" li vediamo tutti incollati con frequenza sui muri) che respingono la visione "dominante" sui libri di storia, del colonialismo, del terrorismo, dell’immigrazione, oltre che del fascismo e della Resistenza.

Ad alcuni ho partecipato: ho sentito, imbarazzato, difendere il colonialismo italiano come civilizzazione, e attaccare l’immigrazione come pericolo per l’identità occidentale. La "revisione" avveniva però in sale discretamente affollate, e gli applausi erano fitti. Per anni ho contrastato le idee di de Eccher nel collegio docenti della mia scuola, ma sulla droga, ad esempio, ho l’impressione che i più la pensino come lui, non come me.

Ecco. L’eredità della Resistenza mi pare questa: in chi guarda ad essa come evento fondativo, prevale l’accoglienza e il confronto rispetto al diverso, immigrato, islamico, omosessuale che sia. In chi la rifiuta, o la riduce ad atto di virile coraggio, prevalgono la paura e l’ostilità.