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“Parlare con gli altri nel Trentino”

Franco Bertoldi, Parlare con gli altri nel Trentino. Temi, Trento, 2001, pp. 63 , £.10.000.

Tema senz’altro curioso quello che Bertoldi propone nel libro sulle interazioni sociali dei trentini. Per riflettere su questo argomento, l’autore ci presenta un’indagine esplorativa tratta da riflessioni che egli, acuto osservatore, coglie nel comunicare con persone diverse per età, sesso ed estrazione sociale nei contesti di vita abituali.

Questo libro, contenuto nella dimensione, non ha la pretesa di essere un saggio scientifico poiché trae spunto da "impressioni" che l’autore rileva dall’interazione con la gente. Le modalità di comunicazione che Bertoldi ci descrive, non possono essere quindi esaustive e peculiari della popolazione trentina, ma comuni a persone provenienti da luoghi diversi.

L’autore riesce tuttavia a cogliere un aspetto della nostra specificità attraverso le espressioni del dialetto trentino, un linguaggio immediato nel veicolare esperienze ed emozioni, offrendoci uno spaccato della nostra identità provinciale con stralci di conversazione registrati nel fluire degli eventi quotidiani.

Trentini "chiusi", "introversi", " poco inclini a comunicare con gli sconosciuti", sono fra i più comuni stereotipi che ci hanno attribuito, ma come comunichiamo con gli altri e con quali modalità interagiamo?

La tendenza a mantenere una certa distanza sociale (intesa come misura della disponibilità ad entrare in relazione con l’altro) e un raggio di sociabilità limitata sembrano essere due aspetti che ci contraddistinguono. Ad esempio non è infrequente, che ognuno di noi si rechi in visita a conoscenti ed amici solo previo accordo telefonico.

"Noi trentini non abbiamo la comunicazione facile, proprio per la distanza sociale che ci caratterizza… si tratta di vera e propria diffidenza, legata spesso alla formazione che ciascuno di noi ha avuto dall’ambiente in cui è cresciuto; ma anche a quella che abbiamo chiamato discrezione, intesa come atteggiamento che non vuole recare disturbo, così come non accetta disturbo, a meno che esso non sia riferito a precisi interessi di norma legati alle necessità della vita quotidiana".

L’autore offre degli spunti di riflessione per l’interpretazione degli stereotipi: la chiusura, che gli altri ci conferiscono, non assume il significato di negazione, indifferenza o autoisolamento, ma di rispetto dell’altro, anzi spesso cela le difficoltà dei trentini di avviare un dialogo, qualora l’interlocutore non sia conosciuto.

La diffidenza nella comunicazione può quindi esprimere un limite nell’interazione sociale, un’incapacità di "rompere il ghiaccio" per eliminare un silenzio, fra i due interlocutori, che risulta spesso molto imbarazzante.

Ciò che emerge, è un ritratto del trentino un po’ impacciato nell’iniziare una conversazione, ma in cui appare superata la propensione a comunicare fra trentini, "riserva" campanilistica oramai limitata alle zone rurali. Relazionarsi con il gruppo di appartenenza (autoctono) permette quell’accomunarsi di origini, di esperienze, che creano vicinanza e sicurezza nel rapporto; certe espressioni della gente ("Son trentin s’cet!"), non nascondono un certo orgoglio nel definire la propria identità provinciale.

Ancor oggi possiamo riscontrare una certa "vigilanza" che scatta nei confronti dei non trentini; si tratta comunque, anche in questo caso, di una difficoltà di approccio iniziale priva di significato discriminante: "Una volta che si è entrati nel gruppo e da esso accettati, il comportamento comunicativo non ha funzioni selettive e anche il non trentino può contare su quella solidarietà sociale che sta alla base del comportamento cooperativo nato non solo per ragioni economiche ma per le stesse condizioni ambientali della provincia".

Le nostre modalità d’interazione sociale variano tuttavia anche in base al contesto relazionale, se abituale, predefinito o casuale; il trentino nell’espressione dei sentimenti sembra essere in ogni caso caratterizzato da misura, ordine e riflessione. Nelle conversazioni sulle disparate tematiche si denota un certo contenimento emotivo, una riservatezza, un "non lasciarsi andare a confidenze", elementi quest’ultimi che celano spesso un marcato timore del giudizio altrui, ma anche la paura di divenire oggetto di pettegolezzo.

Bertoldi quindi nel definire l’identità trentina cerca di cogliere il non detto, il sottaciuto, le inibizioni che impediscono una comunicazione profonda, e lo fa da accademico qual è: con rigore e precisione, che però tolgono allo stile narrativo una certa fluidità. Il suo libro ci porta comunque a fare delle riflessioni, poiché tutti noi siamo poco inclini a soffermarci sulle modalità di comunicazione con l’altro; colti dalla frenesia che il nostro stile di vita c’impone, non abbiamo tempo per ascoltare il nostro interlocutore in modo empatico, attivando un interscambio costruttivo. Ma se ci fermiamo ad ascoltare i nostri desideri, forse possiamo ritrovare il piacere di una comunicazione diretta, fatta di sguardi, parole e gesti che l’uso dei mezzi di comunicazione attuali (telefono, internet) ci hanno fatto dimenticare.

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