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QT n. 10, 18 maggio 2002 Monitor

Filmfestival della montagna: il classico e il postmoderno

I due atteggiamenti del Festival: il desiderio di nuovo, l'approccio spettacolare ed effimero alla natura da una parte; il fiducioso attaccamento alle tradizioni dall'altra.

La montagna come metafora, ammirare e salire la montagna, prima privilegio di pochi e poi possibilità allargata a molti, come stimolo anche per un viaggio interiore, per accrescere la conoscenza del mondo e di sé. Il Filmfestival, nel suo susseguirsi e ampliarsi anno dopo anno dal 1952 nei temi, ambiti, interessi, oltre che evento culturale collettivo, è stato anche occasione, per ogni spettatore appassionato, di continuare il magnifico viaggio, o iniziarsi ad esso, con la fantasia, con l’emozione che l’immagine, sempre più perfezionata, riesce a procurare. Rendendo talora labile il confine tra finzione e realtà, così da non saper più se quei luoghi si sono visti sullo schermo o realmente vissuti.

“Der Weg ist das Ziel” di Gerhard Baur (1986).

E all’ambito cinematografico, nucleo originario e principale su cui il Festival è nato e cresciuto fino ad oggi, volgiamo privilegiata attenzione, nella molteplicità di manifestazioni su argomenti e problemi aperti intorno alla montagna e al suo ambiente ("acqua, cultura, economia, rischio e politica"), in sintonia con le attività perseguite in questo 2002, anno internazionale della Montagna.

Elemento primo a colpire è la ricchezza e sofisticazione delle tecnologie, che consentono risultati di alto professionismo, con un linguaggio filmico ormai perfetto, con immagini, bellissime e suggestive, spesso ricostruite in studio col digitale, di alto livello. Mancano film a soggetto, che tempo fa invece allietavano una sezione apposita, così che la Genziana per questa specificità è rimasta senza assegnazione.

Ma, pur dispiaciuti di quest’assenza, bisogna dire che molti documentari hanno quasi il fascino e anche la suspence propri del film di fiction, suscitando emozioni, sentimenti, riflessioni. Merito del lato estetico certo, ma pure delle idee originali elaborate, dei dialoghi, dei temi proposti; e specie del continuo riferimento ai valori identitari condivisi, riconoscibili nel rapporto uomo-montagna, inalterati prima per generazioni e poi mutati via via, con forte accelerazione negli ultimi anni, di pari passo col frastornante mutare del mondo.

Ed è qui, rispetto ai valori, che nasce lo sgomento, i vecchi e i nuovi, affiancati e nettamente distinti, estesi i confini di esplorazioni e ricerche da ambiti limitati alle estremità del mondo, dai ritmi cadenzati secondo natura ai ritmi frenetici imposti dalla modernità, sostituite profondità e lentezza da estensione e velocità, non una cima ma tutte le cime, non cimento fisico e spirituale ma spettacolo e prestazione.

Come dice Messner (presente al Festival quale autore del libro "Salvate le Alpi", Cardo d’argento nel premio Itas, e protagonista di un bel filmato sulla sua vita, imprese, conquiste e fallimenti, presa di coscienza dei limiti, e specie sua crescita interiore), "povere montagne, ridotte a scenario di un culto del corpo e della performance", e "ridotte, ormai, a parco-giochi del rischio a pagamento, o, peggio, come luogo di turismo distratto e devastante".

E questo duplice atteggiamento, un marcato desiderio di nuovo che impronta di spettacolare ed effimero lo stile di approccio alla natura, e un fiducioso attaccamento a tradizione e radici, che è sempre rispetto e ricerca di senso della vita in ogni azione o cosa si faccia, emerge netto nelle varie pellicole viste, e si estende a tutti gli ambiti, l’alpinismo, l’esplorazione, l’ecologia, lo sfruttamento e la tutela dell’ambiente, l’avventura sportiva.

Si tratti di ascensione o escursionismo, turismo o etnografia, di sport a rischio, si può dire che, per quanto riguarda il primo aspetto, ci troviamo entro categorie stilistiche postmoderne, dove la messa in scena è scissa, la realtà spezzettata in molti dettagli e innumerevoli oggetti, priva di valore simbolico e indifferente ad una comunicazione di significato, prevalente essendo la dimensione ludica e spettacolarizzante, coinvolgente solo sul piano dell’immediata emotività. Nulla, al di là della elegante prodezza dei corpi, di un’esibita allegrezza, traspare della tensione morale che porta all’elevazione fisica e insieme interiore, della ricerca personale che si inoltra nell’anima della montagna trovandovi affinità, risorse, risposte, come viene comunicato invece nei filmati classici, pur aggiornati alla modernità di modi e canoni, dove nella conquista della vetta è insito l’affinamento di conoscenza e sensibilità.

“Il guardiano dei segni” di Renato Morelli.

Anche nei filmati su ambiente, territorio, suo uso e abuso, da una parte, vediamo un progetto turistico che restituisce un mondo falso, artificioso e funzionale al profitto: sacrificate vi sono pure tradizione e arte che, nel contesto stucchevole, perdono verità e senso originario, mischiati con le birre, con i finti manicaretti di secoli addietro, con le finte inservienti in costume, confusa la cultura con un bene di consumo spicciolo, da rosicchiare in fretta insieme allo speck, confusa la tradizione con la sua spettacolarizzazione e il suo travestimento (come appare, ad esempio, in un brutto film illustrativo delle bellezze naturali e artistiche del Trentino da visitare); ricevendo l’impressione di un ossessivo richiamo al turismo di massa, indizio di un futuro privato di risorse vere ed elevanti, banalizzato e volgare, invaso da robot proni al denaro, costi il mondo stesso.

Dall’altra parte, vediamo invece un progetto di conservazione dell’ambiente, la sua salvaguardia, concetto fondamentale nella vita di oggi, in funzione di uno sviluppo sostenibile, che migliori il tenore di vita e il livello economico della zona e della gente che vi abita, evitando così lo spopolamento, nel rispetto però della natura e della cultura locale.

Questo viene proposto, ad esempio, nel bel documentario che racconta la storia del Lagorai, immensa distesa di cime dalla bellezza selvaggia e solitaria, invito alla fusione spirituale ed emotiva con la natura, che accoglie ma richiede fatica, coraggio e rispetto. Il rispetto, preservato forte finora negli orgogliosi abitanti rimasti e nei frequentatori affezionati, ha mantenuto il paesaggio umano-montano, le baite inserite, i terreni coltivati, i pascoli, i sentieri; ed è riuscito ad imporre, sulle proposte di un turismo proficuo ma aggressivo, con funivie, piste da sci, alberghi, bar, un progetto di sviluppo rinnovato, con restauro del patrimonio già esistente e in via di abbandono.

Mentre il film sul paesaggio montano del Vercos, Francia, una catena quasi fortezza a separarlo e a difenderlo dal mondo, percorso nei suoi mutamenti attraverso il secolo passato, dalle prime strade costruite a braccia fino all’inizio di uno snaturamento per via del recente turismo di massa, si pone una domanda: se per il futuro sia percorribile una via mediana tra una conservazione chiusa e gelosa e un’apertura al mondo senza perdita di identità per luoghi e persone.

I film di sport sono quelli in cui più marcato è lo stacco fra stile classico e postmoderno: qui emergono infatti una frenesia e una distanza anima-corpo, più simili a stordimento e a perdita di sé piuttosto che a una ricerca o a un avvicinamento quale si presume avvenga nel contatto con la natura, che assorbono ed esauriscono in sé ogni significato e messaggio.

Molti sono i lavori che fanno riflettere, significativi delle due tendenze, simbolo delle due differenti visioni esistenziali e stili di vita. Fra essi ricordiamo, molto riusciti, alcuni ritratti di persone, gente di montagna, importanti perché la personalità risalta nella forte tenuta identitaria e si esprime nella determinazione e nell’autenticità con cui si persegue un progetto di vita semplice ma ricca interiormente e attiva, di solito plasmata sull’ambiente circostante; possibile perché salda è la consapevolezza di sé e delle proprie radici, intese nel senso positivo di motrici di comprensione, di desiderio di nuova conoscenza e ricerca, di tolleranza costruttiva.

Ci limitiamo a citare "Il guardiano dei segni" (di Renato Morelli, di Trento, che dimostra di aver notevolmente perfezionato stile e poetica), un esempio suggestivo di come il riconoscimento di origini, valore della natura, valori etici dei padri abbia favorito l’incontro creativo con la contemporaneità, vissuta in quella che ne è l’essenza e nei valori fondanti, senza stridori. Sembra davvero che la vita del protagonista sia essa stessa opera d’arte, come i suoi quadri esposti nelle mostre milanesi.Si tratta del ritratto di Gianluigi Rocca, con sviluppo parallelo, e montaggio alternato, delle sue due personalità, entrambe autentiche: il montanaro nelle malghe dell’alta Val Rendena, sede dell’impronta culturale originaria, dove nei mesi estivi dell’alpeggio egli torna a curare le mucche e a vivere la vita quasi primitiva nella e con la natura, emergendo qui anche la lingua dell’infanzia, un dialetto spontaneo, vivo nelle espressioni più colorite; e l’artista-professore a Brera in inverno, dai modi cittadini e sciolti, che esprime ambivalenze e dubbi esistenziali in monologhi colti, dal lessico appropriato, testimoni di cultura, traversie e cammino interiore. Le due esperienze di vita non si contraddicono ma si continuano nell’alternanza, nel segno della genuinità, non lo hanno lacerato ma arricchito e portato, come lui dice, a vivere bene in ogni ambiente, dopo aver imparato a vivere bene con se stesso. Quale contributo concreto alla conservazione della memoria, questo protagonista, turbato dal degrado progressivo incontrato nella natura alpina, procurato da una modernità irriverente, si è prodigato, percorrendo a cavallo mille chilometri di malga in malga, nella raccolta di tutti gli oggetti, ormai estinti, ricchi di valore etnografico e testimoni di antiche cultura e vita.

Concludiamo con l’accenno alla bella retrospettiva dedicata ai documentari sulle Alpi di Folco Quilici, tutto l’arco alpino da est a ovest: una vasta panoramica dello splendido paesaggio, dove pari spazio è dato agli aspetti naturali, di grande bellezza e vigore, e agli aspetti umani, di insediamento, lavoro, progresso e arte, in uno speculare equilibrio che rispecchia il conformarsi e progredire dei secondi sulle forme e sui caratteri peculiari dei primi, che fino a qualche decennio fa ha dato l’impronta. La qualità tecnica ed estetica delle immagini si migliora via via, fino alla raffinatezza che le più recenti tecnologie consentono nell’ultimo capitolo; ma lo spirito e gli ideali che percorrono tutta l’opera restano gli stessi, volti ad indagare e a sollecitare una fusione costruttiva tra natura, genti e cultura.