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I conflitti alla 50a Biennale veneziana

Dallo spettacolo alla riflessione su conflitti e tematiche aspre del presente. Nasce una nuova Biennale?

La 50a Biennale di Venezia, curata da Francesco Bonami e da altri 11 co-curatori, è sicuramente una delle più interessanti degli ultimi anni. Più di 350 artisti - oltre a quelli dei padiglioni nazionali - in buona parte semi-sconosciuti, racchiusi nell’emblematico ed ambizioso titolo "Sogni e conflitti. La dittatura dello spettatore". Un titolo in verità che, come i precedenti, poco dice e nulla afferma, se non quella generica amalgama ove tutto è permesso e quindi può trovare posto.

Sandi Hilal e Alessandro Petti, "Stateless Nation" (che è poi quella palestinese), 2003.

La prima impressione è infatti questa, e si vaga per i padiglioni e per gli spazi sconfinati dell’Arsenale (la cui prospettiva è stata ahimè guastata dal volerci allestire ben otto sezioni, unite ed accavallate in modo difficilmente distinguibile se non da ristrette architetture) con passo lento ma non troppo in cerca di qualche suggestione o divertissement che catturi l’occhio e lo spirito. E così ci si imbatte in una stanza che dà l’illusione di un tunnel infinito popolato da giganti (gli spettatori), in qualche video movimentato (per fortuna c’è stato un ritorno all’ordine che ha limitato la videoarte, imperante nella biennale di Szeemann), in installazioni più o meno grandiose, come le 18.000 pasticche scolpite da Daniel Hirst, e in un ritorno alla pittura e alla fotografia che di per sé sorprende.

Ma superato il primo - distratto - sguardo, si scorge, oltre ai sogni poliedrici e caleidoscopici, il risveglio e i suoi conflitti. Un confronto con la contemporaneità, con i suoi drammi e le sue contraddizioni, scelto da artisti che non intendono redimere il mondo con ricette o soluzioni prêt à porter, ma che sanno dialogare senza pregiudizi con le tematiche del presente.

Già i nomi di alcune sezioni dovrebbero rendere l’idea: Clandestini, Zone d’urgenza, Rappresentazioni arabe contemporanee, La struttura della crisi, Ritardi e rivoluzioni; ma i nomi, si sa, son nulla.

E allora le opere, iniziando dalla Cina, in stretto dialogo con l’occidente, che riflette sul tema della violenza urbana nei monocromi di Yan Pei-Ming, popolati da brutti ceffi nerbuti, ora hooligans, ora agenti antisommossa. Dalla Cina provengono anche le algide fotografie di Liu Zheng, panoramiche di fosse comuni in cui cadaveri scheletrici e smembrati evocano orrori e tragedie universali.

Bandiere - logo del continente vivo ma dimenticato - l’Africa - sono dipinte sulle grandi tele di Frank Bowling, mentre nel video A man side story di Salem Mekuria è rappresentata la desolazione e la solitudine delle bidonvilles del sud del mondo.

Assai sentita la riflessione sul mondo post 11 settembre, che trova approcci anche giocati sull’ironia, come il video Anti-terror variety di Chen Shaoxing, ove grattacieli di gomma si contorcono all’arrivo di aerei kamikaze.

La guerra infinita di Bush è affrontata in chiave esclusivamente pacifista, con i timbri della scritta PACE che passano di mano in mano tra i visitatori, assieme ai poster Imagine Peace ideati da Yoko Ono, che oltre ad essere stata la moglie di John Lennon è stata ed è artista. Alcuni sembrano aderire alla resistenza globale dei movimenti new global; è il caso di Jota Castro, in mostra con l’installazione Survival guide for demonstrators, tattiche e psicogeografia ad uso e consumo di contestatori globali. Sempre in tema di guerra, l’artista bosniaco Seric Soba propone delle fotografie sui mutamenti umani conseguenti ai conflitti.

All’insegna del dialogo e dell’interculturalità tra le popolazioni del Mediterraneo è invece il progetto Love Difference di Michelangelo Pistoletto, al quale tra l’altro quest’anno è stato assegnato, assieme a Carol Rama, il Leone d’oro alla carriera.

Patrizia Piccinini, "Leather landscape" (dettaglio), 2003.

Se un padiglione è rimasto chiuso per protesta (quello venezuelano, con l’edificio avvolto da bandiere del paese e dalla scritta censura), un altro è stato aperto idealmente; quello palestinese, ideato da Sandi Hilal e da Alessandro Petti, e consistente in giganteschi passaporti palestinesi disseminati nella vastità dei Giardini. Una riflessione futuribile sulla genetica è invece il tema del padiglione australiano, ove Patricia Piccinini ci offre esseri clonati e assemblati da diverse specie, epidermicamente credibili, e gadgets per questi bisnipoti della pecora Dolly, come caschi per motociclisti dalla testa (teste?) deforme.

Per chi al nuovo volesse alternare lo storicizzato, è imperdibile infine la mostra a palazzo Correr Da Rauschenberg a Muratami. 1963-2003: il meglio di 40 anni di Biennale.

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