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Piccolo mondo antico

Dalla riforma Moratti emerge una visione storica e sociale ottocentesca. Da L’altrapagina, mensile di Città di Castello.

Paolo Fossati

Parlare di riforma è difficile, quasi impossibile, tanto si ha la certezza di trovarsi dinanzi a una vera e propria azione controriformatrice. Non si tratta di pregiudizi di parte, si tratta di fatti. Intanto il metodo. Scegliendo la via della legge delega il governo ha compiuto una duplice operazione: semplificare un percorso che con un regolare iter parlamentare sarebbe stato lungo e tortuoso, visti i mille aspetti che una riforma generale del nostro sistema scolastico implica; e poi evitare una discussione pubblica sottraendo alle Camere il compito di dibattere i contenuti della legge e di confrontarsi su di essi prima di decidere.

Una legge delega invece è un atto formale che consente al Governo l’esercizio della funzione legislativa, di regola attribuito alle Camere, con una procedura dunque non scorretta in sé, ma che esprime in casi come questo il chiaro intento di sequestrare la discussione, trascurando il fatto che su questioni come la sanità e la scuola la consapevolezza più ampia e la condivisione delle scelte sono elementi indispensabili a un reale processo riformatore. Il significato di questa operazione appare però chiaro se si entra nel merito del provvedimento.

Fra i principi e criteri direttivi che dovranno essere osservati nei decreti applicativi della legge compare, al comma b) art. 2, il seguente: "Sono promossi il conseguimento di una formazione spirituale e morale, anche ispirata ai principi della Costituzione". Principio che appare in totale contrasto con lo spirito laico che attualmente informa tutti gli ordinamenti scolastici italiani, perché sembra adombrare una "morale di Stato" fondata su valori spirituali ed etici che sarebbero a fondamento degli stessi principi costituzionali. Interpretazione, la nostra, rafforzata dal passaggio contenuto nel comma e) dell’art.2, in cui si dice che la scuola dell’infanzia "concorre all’educazione e allo sviluppo affettivo, psicomotorio, cognitivo, morale, religioso e sociale delle bambine e dei bambini". Il carattere non-laico e non-pluralista che si intende far assumere alla scuola italiana appare in tutta la sua evidenza e scientifica determinazione, visto che si vuole intervenire per realizzarlo, già dalla scuola dell’infanzia.

Quella della Moratti è poi una scuola familistica, ossia in mano alle famiglie, che acquisiscono il diritto di decidere se mandare i propri figli nella Scuola dell’infanzia a due anni e mezzo e in prima elementare a cinque anni e mezzo, e alle quali viene affidata la responsabilità di "scegliere" i percorsi formativi offerti dai docenti ai propri figli (vedi le Raccomandazioni per l’attuazione delle Indicazioni Nazionali per i "Piani di studio Personalizzati"); per compiacerle, inoltre, si ritorna alla figura del maestro unico, qui detto maestro prevalente o tutor, che dovrebbe fornire una visione più rassicurante e tradizionale della scuola primaria.

Ma quali sono questi genitori cui ci si rivolge, se non quelli rappresentati dal pensiero di Don Giussani e di Comunione e Liberazione? Il punto di riferimento cambia radicalmente: ai bisogni e interessi della collettività si sostituiscono quelli della persona, vista nel suo particulare, della famiglia che utilizza la scuola come un servizio privato cui affidare i figli prima del tempo, anche se questo può significare far saltare completamente gli equilibri didattici ed educativi esistenti oggi nelle nostre scuole dell’infanzia, dove i bambini fanno esperienze e apprendono, perché sono già pronti per questo percorso e dove tutto ciò sarà più difficile quando ci saranno bambini di due anni e mezzo da cambiare, consolare e seguire, perché ancora troppo piccoli per fare il lavoro degli altri. Idem per la prima elementare, dove si potranno avere bambini con differenze di età fino a 15 mesi: secoli per loro. Ma l’importante non sembra essere lo sviluppo psico-fisico dei bambini quanto il servizio offerto alle famiglie attraverso la cosiddetta personalizzazione dei percorsi. Con l’introduzione della figura del maestro tutor, si cancella d’un colpo la legge di riforma delle elementari del 1990, che aveva sostituito faticosamente il maestro unico con il team docente, aprendo la scuola primaria al confronto di idee e di posizioni, sostituendo la collegialità delle scelte e delle decisioni al monolitismo sterile del docente unico.

Nella Legge delega scompare il concetto di obbligo scolastico, accompagnato dalla abrogazione della Legge n. 9/1999, che aveva elevato l’obbligo di istruzione da 8 a 10 anni, e al suo posto si parla di diritto-dovere all’istruzione. La Legge intende assicurare "a tutti il diritto all’istruzione e alla formazione per almeno dodici anni o comunque sino al conseguimento di una qualifica" (comma c) art. 2). Dall’obbligo al diritto-dovere, che può esplicarsi in 11 anni se si intraprende il percorso che porta alla qualifica professionale triennale, in 12 anni se si utilizza il canale quadriennale dell’istruzione professionale, in 13 anni se si opta per il quinquennio dei licei.

Non solo, ma l’attuazione di tale diritto si può realizzare nel sistema di istruzione (ossia negli istituti di scuola superiore che si chiameranno licei) e nel sistema di formazione professionale che passerà interamente alle Regioni, portando con sé tutti gli istituti professionali e buona parte di quelli tecnici. Più chiaro di così: si ritorna a quel sistema duale messo in crisi con la riforma della scuola media del 1962 e la scomparsa delle scuole di avviamento al lavoro e definitivamente sepolto proprio con la legge 9 del 1999 ora abrogata, così che vi saranno ragazzi destinati alla carriera di studi nei licei riformati e ragazzi predestinati dalla loro collocazione sociale al lavoro precoce, passando per i corsi della formazione professionale.

C’è dietro questa soluzione il permanere di quella concezione altrettanto classista di matrice gentiliana, che separa nettamente il lavoro intellettuale da quello manuale e quindi le scuole in cui si dovrà istruire la classe dirigente da quelle in cui si dovrà formare la forza lavoro del futuro. Concezione che oltre che essere odiosa è anche, oggi, ampiamente superata dallo sviluppo delle forze produttive che impone una crescita generale dei saperi e del loro uso. Con questa scelta ci portiamo alla coda dell’Europa.

Si ritorna infine a una scuola senza autonomia. Una scuola ricondotta nell’alveo di quel sistema gerarchico-burocratico da cui stava lentamente uscendo. Una scuola cui vengono ridotti gli spazi di flessibilità nella scelta dei curricoli per affidarli alle Regioni (quindi una scuola meno nazionale e più regionale), che non potrà decidere i propri modelli organizzativi perché li definiscono la legge delega ed i suoi decreti applicativi, senza organico funzionale, con sempre meno risorse per i progetti e le attività ordinarie, come ci sta abituando il ministro Tremonti con i tagli al bilancio del 20% l’anno (siamo al 35% in meno in 2 anni), più quelli agli alunni disabili e alla formazione del personale. Una scuola che peggiorerà alcuni vizi esistenti (la gara frenetica a offrire prestazioni aggiuntive in orario extracurricolare, ossia per pochi) e abbandonerà progressivamente la via della ricerca curricolare per il miglioramento della offerta formativa nel tempo scuola obbligatorio (ossia per tutti), della collaborazione in rete tra istituti, del servizio reso alla comunità locale.

Da questo quadro molto sintetico appare chiaro che sarà una scuola che non valorizza gli alunni come gruppo, ma solo i singoli se appartenenti a famiglie socialmente e culturalmente solide; che non si propone di valorizzare e sviluppare la professione docente ma la subordina agli interessi delle famiglie; che non promuove le autonomie locali se non come strumenti di controllo politico sulla scuola; che si prefigge di approfondire il solco tra chi sa e chi non sa, chi è destinato a comandare e chi a ubbidire, in una visione storico-sociale più ottocentesca che contemporanea.