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“Hotel Millestelle”

Charlie Barnao-Antonio Scaglia, “Hotel Millestelle – Voci e luoghi di gente che vive diversamente”. Padova,Cleup, 2003, pp.125, € 13.

Che significa vivere diversamente? E diversamente da
chi, rispetto a quale normalità? Un libro che descrive il mondo dei senza dimora, dei diseredati, dei puttanieri da strada, ha sicuramente molto da dire sul vivere diversamente, perché si pone in senso contrario rispetto a tutto ciò che è comune o che crediamo sia comune. Il libro di Barnao e Scaglia apre i microfoni a tre memorie, ai pensieri di tre persone che bene o male si sono trovate di traverso sulla strada del comune sentire ed apparire. 

Sarebbe troppo facile però nel mio ruolo di recensore finire dritto dritto nel tunnel di un cattivo costume pseudosociologico ad innalzare agli onori di cronaca le vite alternative dei protagonisti del libro, brandendole come spade affilate per ferire il perbenismo quotidiano del quieto vivere. Se l’intento dei curatori di queste tre memorie di strada era quello di denunciare un mondo che non ci va o di esaltare un modo alternativo di vivere, beh è stata solo aggiunta una goccia minima in un oceano di opere ben più pregnanti e sconvolgenti. Ma a noi piace pensare che non sia stato questo il principale obiettivo del libro, piace immaginare che il libro sia stato scritto per potervisi immergere alla ricerca di sé, a proprio uso e consumo di apolidi senza identità quali nel nostro intimo siamo. 

Ce lo dice Fabrizio, il protagonista della terza memoria, l’uomo dei night e dei bordelli di mezzo mondo, l’uomo che dopo un matrimonio fallito decide di vivere nel suo cinismo che oggettivizza le donne e le considera mezzi di piacere o di domino, prima di guardare con occhi diversi quel mondo usa e getta, riscoprendo dietro le vite di confine dei trans e poi di tutte le prostitute una persona, un essere umano, anch’esso come lui alla ricerca della propria identità: "Tutti combattono per sopravvivere. Lottano per mangiare, per abitare, per avere uno straccio di compagno, di compagna o una qualche amicizia. Ma quanta gente non riesce a fermarsi da qualche parte. Non riescono a sapere chi sono. La chiamano identità. E’ forse la nuova fame nel mondo".

Se a questo libro si dovesse apporre una brevissima presentazione, parole migliori non si potrebbero trovare. I tre personaggi anelano ad un significato dell’esistenza, per trovare il quale sono in viaggio, sono in cammino, un doloroso cammino. Vivono sulle panchine, in galera, tra i rifiuti e le violenze spesso ai limiti estremi della sopportazione umana ("Dicevano che mi dovevo fare le ossa. Dovetti pulire la merda a mani nude, per tre giorni" - racconta Pedro, il colombiano, nei suoi ricordi di ragazzino in carcere). Ma sempre alla ricerca di un approdo. 

Che può essere quello delle panchine di piazza Dante, come accade per Said, il leader della piazza e dei senza dimora di Trento. Un uomo che guarda il mondo senza reggersi sulle gambe, perché se le è portate via una malattia rara quanto inesorabile, e che osserva il peregrinare insoddisfatto di Tiziana, "donna che cerca sempre qualcosa e qualcuno, un’altra cosa o un altro. Solo che sembra non trovare mai quello che cerca. E’ per questo che non si ferma mai". Senza sosta, senza identità alcuna. Un’identità che Said non riscontra in quella che noi chiamiamo libertà, che per lui invece è solo cecità di fronte alle storie della gente come lui. Un’identità che lui trova nell’essere il regista delle commedie che con i suoi compagni di viaggio, novelli attori della secolare "comédie humaine", offre ai pensionati in piazza, i suoi amici di giorno. 

La piazza diventa il centro della loro società, così come lo è per tutte le società. Per questo in piazza ci si ritrova a meditare sul perché trarre un respiro dopo l’altro, per questo la piazza simbolicamente riunisce i dilemmi dell’uomo, pur nelle sue diversità. 

Said, Pedro e Fabrizio hanno alle spalle storie ed esperienze differenti, che li hanno segnati sulla pelle e che ne hanno spesso condizionato le scelte e i comportamenti, le contingenze insomma. Eppure, tra mille sfumature e chiaroscuri alienanti, un filo comune li lega in direzione di un senso. Non è la vita su una panchina o al bancone di un night che può togliere quel pungolo intimo che porta a grattare schegge di significato dall’esistenza. E’ un sentire comune che va al di là di ogni contingenza, come tra le righe ci comunicano questi tre "diversi". Un pungolo fastidioso che De Andrè poneva chissà perché tra l’aorta e l’intenzione e che così simbolicamente ci piace immaginare in tutti i nostri corpi.