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“Le donne, la moda, la guerra”

La (precaria) emancipazione conquistata dalle donne durante la Grande Guerra, e il conseguente radicale cambiamento dell'abbigliamento femminile: un'interessante mostra al Museo della Guerra di Rovereto.

Al visitatore stanco di aggirarsi tra immagini di montagne dipinte e reali, Rovereto offre in questo periodo una curiosa e interessante proposta: la mostra "Le donne, la moda, la guerra", ospitata al Museo Storico Italiano della Guerra fino al 14 marzo. L’esposizione è frutto di una ricerca portata avanti dall’Università IULM di Milano e si presenta come un affascinante esercizio di storia sociale, volto ad indagare il sottile rapporto instauratosi tra il nuovo ruolo civile assunto dalla donna durante la Prima Guerra Mondiale e il fondamentale cambiamento dell’abbigliamento femminile che ne conseguì.

Paul Stahr, disegno per la copertina di "Life Magazine", 1919.

In mostra una trentina d’abiti e accessori dell’epoca, oggetti estremamente preziosi che, nel loro graduale aggiornarsi, documentano l’incalzante passaggio dal modo di vestire ancora ottocentesco d’inizio secolo all’abbigliamento degli anni Venti che, con le sue linee morbide e leggere, inaugura la futura evoluzione in chiave moderna della moda.

I pezzi provengono da varie collezioni private e dal Museo della Donna Evelyn Ortner di Merano; sono per la maggior parte di produzione americana e strettamente legati ad un utilizzo borghese del fenomeno moda, sfruttato come veicolo di trasmissione di un’immagine femminile ideale, incapace però di rispecchiare fino in fondo la complessità dell’esperienza reale. Accanto ai vestiti, una ricca selezione di fotografie, disegni e illustrazioni tratte dalle maggiori riviste dell’epoca e campioni di stoffa, aiuta a meglio contestualizzare un momento di cruciale importanza per la storia del costume, evidenziando le tappe principali che hanno portato all’eliminazione di rigidi bustini, biancheria pesante e accessori ingombranti, all’accorciamento della gonna e infine all’assunzione di un modo di vestire dalle linee più semplici, di chiara impronta maschile.

E’ nella vicenda bellica che si nasconde la molla del cambiamento e gli abiti non fanno altro che registrare le profonde trasformazioni già in atto da tempo nella società. La guerra accelera infatti molti fenomeni preesistenti, come l’utilizzo di manodopera femminile, ai quali viene però conferita nuova visibilità e grazie ai quali comincia ad insinuarsi nel pensiero comune la speranza di un maggior grado di libertà. Il controllo sociale è in realtà ancora più capillare e l’emancipazione solo una parvenza destinata ad essere sbrigativamente disillusa nell’immediato dopoguerra, ma che non manca egualmente di provocare accese polemiche e timori di mascolinizzazione negli animi più conservatori; la sensazione è quella di vivere in un mondo alla rovescia, in cui le donne, abbandonati i tradizionali panni di angeli del focolare, partecipano attivamente alla vita della comunità, assumendo nuovi ruoli e inedite responsabilità.

Tra le prime e più curiose forme di partecipazione volontaria ci furono i cosiddetti "comitati della maglia", dediti alla realizzazione d’indumenti di lana fatti ai ferri per i soldati al fronte. Le riviste di moda appoggiavano apertamente queste iniziative tramite la pubblicazione di modelli per capi d’abbigliamento "da trincea" e allo stesso tempo, data la necessità di destinare lana e cotone agli indumenti militari, stimolavano la fantasia ad inventare soluzioni alternative per chi invece rimaneva in città. Il fenomeno più vistoso fu però quello dell’utilizzo di manodopera femminile in settori fino ad allora rigidamente preclusi alle donne, e il loro ingresso in massa nell’apparato produttivo contribuì effettivamente a cambiarne non solo la vita, ma anche il modo di pensare. La mobilitazione nell’industria bellica, nel settore dei servizi, nella confezione di divise e nella gestione dei lavori agricoli, riguardò soprattutto le donne del popolo, spinte da un impellente bisogno di sfamare la famiglia, ma fu rilevante anche l’impegno di donne di classi sociali elevate, fino ad allora escluse da qualsiasi attività extra-domestica e per le quali il periodo bellico comportò un’inedita apertura sociale. Caratteristiche sono a questo proposito le figure delle intrepide crocerossine e delle caritatevoli madrine, intente in vari modi a recare sollievo ai soldati impegnati sul fronte.

L’impiego femminile in queste attività determinò la creazione di un abbigliamento più comodo, in grado di adattarsi alla forma del corpo oltre che alle nuove esigenze lavorative; scomparvero così le gonne lunghe e svolazzanti ed i corpetti attillati, lasciando spazio all’entrata in scena di tuniche monocolori e tailleur diritti, ispirati all’indiscussa funzionalità delle divise maschili.

Ma con la fine del conflitto tutto era destinato a cambiare; se la moda continuò il suo rivoluzionario cammino verso la modernità, inaugurata dagli abitini corti, morbidi e variopinti alla Coco Chanel, altrettanto non si può dire della condizione femminile: per lo meno in Italia, un’impellente ansia di ritorno all’ordine spazzò via ogni conquista e ogni illusione di una reale emancipazione.