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Uruguay: povero ma non troppo

Un piccolo Paese sospeso fra due mondi

Antonio Graziano

Mani nude, pelle bruciata dal sole, cavalli che lavorano fino allo stremo. Senza un giorno di riposo. Vivono, il più delle volte, in baracche di fortuna, costruzioni di legno e lamiera calde d’estate e fredde d’inverno. Vivono in famiglie numerose, dove a 40 anni è facile essere nonno. Vivono nella periferia semiurbana della capitale e di altre città uruguaiane. Lì nascono le favelas del XXI secolo. Ammassi di sofferenza, dignità e rifiuti. Discariche dove pascolano bambini ed animali, mentre i genitori differenziano plastica, vetro, cartone ed altri materiali per venderli a prezzo stracciato al primo offerente.

Sono un esercito di oltre 15.000 persone che trasformano i rifiuti in ricchezza. Girano per i quartieri ricchi, raccogliendo giorno e notte materiali "inutili" con un carretto tirato da un cavallo. Alle volte in bicicletta o a piedi. Gli scarti del consumismo sono per loro fonte di vita. Attraverso la loro attività informale danno da mangiare e da vivere alle proprie famiglie. Si calcola che nella sola Montevideo, il loro lavoro permetta l’eliminazione di un terzo dei rifiuti urbani.

In Uruguay, vengono chiamati comunemente clasificadores o hurgadores, e prendono altri nomi nel resto del continente. In Argentina si chiamano cartoneros, in Brasile catadores. In molti paesi, si sono organizzati in sindacati, cooperative ed associazioni. In Uruguay hanno formato un sindacato nazionale, la UCRUS (Unione dei Classificatori dei Rifiuti Urbani Solidi) e costituiscono una rete con i raccoglitori di rifiuti del resto del mondo. Accomunati da un lavoro che rappresenta un’alternativa degna, ma anche un esempio di sostenibilità ambientale che nasce dalla povertà e dalla dignità degli ultimi degli ultimi.

Questo è uno dei molti scenari scelti a caso nell’Uruguay di oggi. 5 anni di governo di sinistra, 7 anni dopo la crisi economica, 23 anni dopo la dittatura, mezzo secolo di riforme strutturali, poco più di mezzo secolo di sottosviluppo o di falso sviluppo, un secolo dopo l’invenzione del welfare, due secoli dopo l’indipendenza ed il massacro dei fratelli indigeni, cinque secoli latino americanizzazione. Questo è l’Uruguay del XXI secolo.

Quando si dice Uruguay si pensano tante cose differenti, o forse non si pensa a niente. Uruguay ricorda qualcosa di indio, una nazionale di calcio, un quadro esotico; il Paese degli uccelli colorati, la Svizzera dell’America Latina che, a parte i conti in banca di imprese ed impresari off-shore, ha ben poco in comune col Paese alpino.

E’ un territorio senza rilievi e quasi disabitato. Senza rilievi, perché costituisce la via d’accesso alla grande pianura sudamericana, patria del mondo gaucho, popolato decenni addietro da meticci, i gauchos dallo spirito nomade che ancora conservavano qualche goccia di sangue indigeno. Oggi quella pianura sta diventando un’imeensa piantagione di soia ed alberi esotici.

Senza rilievi, perché irrilevante nello scenario internazionale. Un microscopico Stato nato per caso sul margine orientale del Rio de la Plata. Con meno di tre milioni e mezzo di abitanti, pari alla popolazione della provincia di Napoli, o 6 volte la popolazione trentina, in un territorio che è grande tre quarti quello dell’Italia.

Un’economia che si basa sull’esportazione di carne e di commodity e sui mercati finanziari. Un mercato microscopico, che segue le oscillazioni dei grandi fratelli sudamericani. Un Paese che si trova nel centro del Mercosud, futuro grande mercato latinoamericano. Un Paese a reddito medio-alto, che per questo non merita tanti aiuti allo sviluppo, come invece altre nazioni della regione. Nonostante il reddito, un uruguaiano su quattro è povero e buona parte di questi vive in baraccopoli irregolari, con servizi precari, attaccandosi alla luce elettrica e all’acqua come può.

L’Uruguay è sospeso fra due mondi. È latinoamericano, ma è anche europeo, il che in realtà è la stessa cosa, visto che la parola "latinoamericano" sottintende una storia di dominazione. È un Paese nato con la morte di fratelli indigeni, un Paese con un’importante società civile, che di tanto in tanto mostra meravigliosi esempi di solidarietà e cooperazione. È una democrazia stabile, forse la più stabile dalla California meridionale fino alla Terra del Fuoco. Una democrazia ad alta intensità con disuguaglianze che si avvicinano spaventosamente a quelle del resto dell’America latina.