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QT n. 15, 16 settembre 2006 Servizi

Vogliamo evitare un nuovo Olocausto?

Il gioco - pesante ma tutt’altro che stupido - di Ahmadinejad: far leva sulle grossolane contraddizioni dell’Occidente in Palestina.

Negli ultimi mesi il presidente iraniano Ahmadinejad non ha perso occasione per esercitarsi in una sorta di sillogismo storico-giuridico che all’incirca suona così: io all’Olocausto non ci credo proprio, dev’essere una invenzione dei sionisti, però… se proprio dite che c’è stato e voi stessi europei ne rivendicate la piena responsabilità, come cristiani a quel tempo accecati dall’odio anti-semita, beh, allora c’è qualcosa che non quadra. Dovreste almeno spiegarmi una cosa: perché dei musulmani (i palestinesi scacciati dagli ebrei dal 1948 in poi) hanno dovuto pagare il conto dell’Olocausto causato da voi? Non sarebbe stato più giusto risarcire Israele a spese degli aguzzini, a vostre spese, creando ad esempio nel centro dell’Europa cristiana, magari in Baviera o in una regione dell’Austria, uno stato ebraico?

l presidente iraniano Ahmadinejad.

Va da sé che la negazione del diritto a esistere dello stato d’Israele è un po’ il corollario del ragionamento e il presidente iraniano non si perita di proclamarlo ai quattro venti con un’enfasi che, da tempo, non si trovava neppure nei proclami degli stati o dei dirigenti arabi più oltranzisti. Di qui certamente anche la nuova, inattesa popolarità del presidente iraniano (a capo di uno stato sciita, com’è noto) tra le masse arabe e sunnite, popolarità che supera evidentemente persino le antiche e dolorose divisioni religiose interne all’islam. Il presidente Ahmadinejad non è affatto un ingenuo provocatore, né un pazzo scatenato, come lascia intendere certa stampa occidentale: indubbiamente egli dice ad alta voce quello che il "cuore" di molti arabi e musulmani sente e che altri capi di stato musulmani non direbbero mai e persino negano di pensare: Israele è un paese neocolonialista che non ha alcun diritto di esistere.

Le esternazioni di del presidente iraniano sono state spesso e volentieri liquidate sulla stampa occidentale con giudizi sprezzanti e frettolosi. Colpisce, direi, proprio la sommarietà di tanti media europei e americani, che non entrano mai nel merito di affermazioni che, è pacifico, si collocano certamente nel quadro della battaglia propagandistica della élite iraniana, una battaglia che ha di mira forse più avversari interni che esterni. Ma, nondimeno, le parole di Ahmadinejad hanno toccato un nervo scoperto, rivelandoci di colpo una Grande Rimozione, una nostra rimozione, di noi europei e occidentali.

1948, Tel Aviv: Ben Gurion proclama la nascita dello Stato d’Israele.

Di che si tratta? Nulla di ignoto, ma appunto qualcosa di peggio, qualcosa che è stato, è continuamente rimosso. L’Europa del dopo Olocausto se l’è cavata a buon mercato: in risarcimento ha dato agli ebrei la possibilità di fondare uno stato su terre altrui e, solo di recente, con papa Giovanni Paolo II (e tra mille ritrosie e contestazioni interne) ha pensato di chiudere definitivamente col passato facendo mea culpa, riconoscendo insomma l’Olocausto come complessiva "colpa dei cristiani", e non soltanto dei nazisti o dei tedeschi cattivi come ci si era abituati a dire.

In conclusione un perdono è stato chiesto dopo 50 anni e il risarcimento è stato fatto sì, ma a danno di terzi... Questa è la pura e nuda realtà dei fatti, realtà difficilmente contestabile: un bell’esempio di "diritto applicato" da parte di paesi e popoli che si vantano da sempre di essere la culla della civiltà giuridica, dello "stato di diritto", di stare all’avanguardia mondiale nella difesa dei diritti umani, civili, ecologici e via discorrendo! Ahmadinejad l’avrà detto per provocare, per scopi propagandistici interni e esterni, ma ha davvero affondato il coltello nella piaga, una nostra piaga…

Nei media euro-americani si continua semplicemente a ignorare o trascurare l’antefatto ormai lontano dell’odierna tragedia mediorientale. All’ingiustizia immensa dell’Olocausto, l’Europa del dopoguerra pensò di rimediare con una ingiustizia di ordine diverso ma enorme, e soprattutto gravida di conseguenze, creando nel 1948, con la sua benevola assistenza al parto dello stato di Israele, tutte le premesse del futuro annoso conflitto arabo-israeliano. Certo, all’epoca Francia e Gran Bretagna erano ancora stati imperiali che ragionavano con mentalità colonialista: dovendo comunque riorganizzare lo scacchiere del Mediterraneo orientale per risistemare i resti dell’impero, essi pensarono che in fondo un pezzetto di terra semidesertica agli ebrei, usciti dalla Shoah, si potesse pur darlo senza creare troppi problemi. Gli arabi del posto non erano in fondo che una massa di contadini incolti che bene o male avrebbero dovuto accettare il fatto compiuto della presenza israeliana, così come tante volte prima d’allora avevano dovuto accettare il fatto compiuto delle occupazioni francesi, britanniche, italiane, ecc. Non si può negare, in astratto, che la soluzione poteva sembrare più che decente, persino economica, alle teste pensanti delle potenze coloniali ormai al tramonto. Chi avrebbe potuto allora prevedere una, due, tre, quattro guerre tra Israele e gli stati arabi confinanti? Chi avrebbe potuto prevedere allora l’intifada palestinese, Sabra e Chatila, il successo di Hamas, le guerre in Libano e l’avvento di Hezbollah…? Insomma, in una parola: si metteva in conto che gli arabi della zona si sarebbero magari incazzati davvero, ma non che se la legassero al dito addirittura per i 60 anni successivi! Un po’ di bastone e un po’ di carota, e le cose prima o poi si dovevano aggiustare anche in Palestina, come ai tempi d’oro: questa la mentalità degli "ingegneri coloniali" che presiedettero alla nascita dello stato di Israele e alla sistemazione del Medio Oriente all’indomani della seconda guerra mondiale.

Proviamo – per renderci conto della enormità della soluzione adottata - a fare un po’ di fanta-storia. Immaginiamo che le grandi potenze avessero portato intorno al primo dopoguerra un popolo neo-greco in Italia Meridionale, concedendogli di farsi uno stato manu militari a spese, poniamo, di campani e calabresi, magari con la scusa plausibile che in fondo questo popolo non farebbe che rientrare in possesso della terra occupata più di 2000 anni fa dai suoi avi… L’Italia sarebbe oggi il paese un po’ caotico, ma prospero e pacifico, che tutti conosciamo? E noi saremmo rimasti con le mani in mano di fronte alle pretese di questi neo-greci? E i calabresi o i campani non avrebbero trovato prima o poi il loro Arafat, il loro Hamas?

Che le cose non siano andate come prevedevano gli ottimisti ingegneri dell’ultima stagione del colonialismo, è sotto gli occhi di tutti. Anche dello stesso Israele, cui non si può certo rimproverare di essersi a quel tempo buttato con entusiasmo e operosità nell’impresa di creare il "suo" stato, quello che le contingenze storiche gli avevano inaspettatamente permesso di creare. Un paese uscito dall’orrore dell’Olocausto a cui si metteva dinanzi agli occhi la realizzazione di un sogno antico, l’entrata nella Terra Promessa: ci si poteva aspettare che Israele si fermasse, che stesse qualche anno a disquisire sulla legalità internazionale di una occupazione manu militari della Palestina?

Lo stato di Israele nasce da queste circostanze: cattiva coscienza europea, ansiosa di risarcire le vittime a buon mercato, "economicamente", da un lato; dall’altro, la voglia di ricominciare a vivere dei sopravvissuti all’Olocausto che letteralmente non vedevano (in quei frangenti non potevano vedere) il punto debole di tutta l’operazione: a una ingiustizia infinita si rimediava con un’altra colossale ingiustizia, l’Olocausto ebraico veniva pagato con la Diaspora palestinese, la sofferenza di un popolo veniva "risarcita" con la sofferenza e la disgrazia permanente di un altro popolo.

L’ingiustizia resta tale, anche se la storia com’è noto è fatta di una sequela infinita di rapine e sopraffazioni. Alla legalità formale delle leggi e del diritto internazionale si sovrappone spesso e volentieri la legalità dei fatti compiuti, quella che è in definitiva la legge per antonomasia della Storia, legge non scritta ma sempre in vigore da che mondo è mondo, che sanziona semplicemente e inesorabilmente i rapporti di forza sul campo e il diritto del vincitore. Israele ha conquistato il diritto a esistere in Palestina solo sulla base di questa legalità dei fatti compiuti, non altro, favorito dalle circostanze. E’ la Storia, non il Diritto che ha consacrato la sua pretesa a esistere in territori altrui.

Bombardamento a Beirut.

Nulla di strano, in verità, nulla di nuovo sotto il sole: Israele è in buona e folta compagnia: innumerevoli stati europei o extra-europei sono nati o si sono ingranditi e sviluppati su simili presupposti. E’ la regola più che l’eccezione. La Storia poi, com’è largamente noto, la scrive il vincitore di turno. L’atomica di Hiroshima o la distruzione di Dresda, due crimini efferati contro l’umanità decisi dai predecessori di Bush e Blair, sono tuttora pudicamente presentati come due atti militarmente razionali, concepiti al nobile scopo di abbreviare la seconda guerra mondiale. I terroristi israeliani di ieri, sono diventati con la creazione dello stato di Israele patrioti e padri della patria; anche noi italiani abbiamo avuto fior di presidenti e ministri della repubblica che, durante la resistenza erano per gli avversari al potere solo vituperabili banditi o terroristi…

Ma allora, non meravigliamoci che ci sia sempre qualche nuovo terrorista che lavora a capovolgere la "legalità" vigente, a rifare la Storia, a creare con tutti i mezzi, nobili, meno nobili e persino ignobili, una nuova legalità dei fatti compiuti a lui più favorevole. E’ quello che forze estremiste come Hamas e Hezbollah – terroristi per l’Occidente ma, ricordiamolo, patrioti per molti arabi - stanno ostinatamente facendo negli ultimi anni.

La prima, Hamas - ironia della Storia - fu addirittura amorevolmente aiutata dallo stesso Israele che sconsideratamente pensò di mettere i bastoni tra le ruote al vecchio Arafat e alla sua organizzazione (OLP) allevandogli e poi sollevandogli contro il fondamentalismo islamico. Il tragico è che in Israele, a tutt’oggi, si stenta ancora a vedere qualcuno che si mangi le dita per tutte le buone occasioni perdute di fare una pace onorevole e giusta con il laico Arafat, personaggio che fu tacciato fino alla morte di terrorismo. Neppure i tempi supplementari del successore Mahmud Abbas (Abu Mazen), laico e volenteroso presidente palestinese, sono serviti a Israele per decidersi una buona volta a intavolare una seria trattativa di pace.

Ora al vertice della Autorità Palestinese c’è Hamas, che rischia, se Israele si ostina a trattare pure questo soggetto come organizzazione terroristica, di venire ulteriormente scavalcato da frange ancora più estreme.

Israele è certamente di fronte a scelte difficili, ma sembra ancora restio a comprendere la necessità e l’urgenza di fare il passo preliminare, un passo di buon senso elementare e essenziale: riconoscere che la pace si fa con il nemico, non con altri. Israele non potrà a lungo permettersi di continuare a dire sempre e comunque che il nemico è terrorista, solo per evitare di doversi impegnare seriamente sul sentiero tortuoso della ricerca della pace. I muri non lo salveranno dai missili. E la pace, quella vera e duratura, non si fa offrendo le briciole, come ai tempi di Barak.

Ora poi c’è un fatto nuovo: Hezbollah ha dimostrato la vulnerabilità di Israele. I carri armati e gli elicotteri con la stella di David vengono facilmente abbattuti da lancia-missili portatili; i katiuscha di oggi, piccoli e imprecisi, domani saranno magari sostituiti da missili più potenti e micidiali. Ecco, ulteriore fatto nuovo che cambia le carte in tavola: l’uso dell’arma missilistica ha mutato profondamente il quadro strategico-militare del Medio Oriente. Haifa è stata colpita con parsimonia e Tel Aviv appena sfiorata, è vero, ma ciò è avvenuto solo per precise scelte di Hezbollah e dei suoi tutori oltre-confine, che volevano evidentemente lanciare un messaggio: tutto il territorio israeliano è d’ora in poi nel raggio delle nuove armi. E nella prossima guerra, sia essa con Hezbollah o con Siria e Iran, potrebbero piovere su Israele ben altri missili, magari a testata chimica o biologica (il nucleare, di cui si favoleggia, è di là da venire), con conseguenze incalcolabili e reazioni immaginabili. Sarebbe l’anticamera dell’apocalisse.

Ci si chiederà perché Israele sembri tanto restia a cercare la pace in Palestina e con i suoi vicini arabi. Si potrebbe attribuire tanta esibizione di muscoli e sprezzante atteggiamento neocolonialista, a congenita arroganza verso i vicini, in fondo a un malcelato razzismo anti-arabo.

Gaza, una manifestazione di Hamas.

Ma non è questo il punto. La vicenda di Israele è davvero a una svolta. Nella regione non crescono soltanto i movimenti estremisti islamici e l’odio anti-ebraico: crescono anche paesi che aspirano all’egemonia regionale. L’Iran è già la grande potenza regionale emergente; ma anche il piccolo Libano, paese relativamente laico con mentalità occidentale e strutture moderne, con una economia in forte ascesa, può dare fastidio. Il singolare accanimento della aviazione israeliana nel distruggere sistematicamente le infrastrutture civili e economiche del paese di cedri – ben al di là, è stato rilevato, delle esigenze strettamente belliche - ha fatto sorgere più di un dubbio sui reali obiettivi dell’attacco. Israele è ancora un paese che surclassa sul piano economico e tecnologico i paesi circostanti, ma l’emergere ai suoi confini di una borghesia araba moderna e aperta ai traffici internazionali in stati relativamente laici e europeizzati come Libano e Giordania, può in prospettiva rappresentare una minaccia alla sua supremazia economica nella regione. Ora il Libano, con le infrastrutture a pezzi, per un po’ di anni se ne starà buono a leccarsi le ferite, la rinascita di Beirut è già un ricordo… Gli altri paesi si regolino.

Israele è ancora, incontestabilmente, la prima potenza del Medio Oriente; ma le sue teste pensanti sanno bene che non lo sarà ancora per molto, e qui sta uno dei nodi della questione. Israele non potrà in eterno gestire i suoi rapporti con gli arabi e i musulmani prendendoli a bastonate. Anche perché, come s’è visto, la sua stessa supremazia militare può essere messa in crisi da un piccolo movimento estremista ben organizzato e rifornito dai potenti vicini.

Israele è insomma di fronte al problema di gestire efficacemente la inevitabile transizione verso una situazione in cui dovrà convivere con potenze regionali musulmane ambiziose: la Siria e l’Iran certo, ma non dimentichiamo la Turchia, in bilico tra Europa e Islam fondamentalista, che, secondo alcuni osservatori, avrebbe chiuso un occhio sul passaggio di rifornimenti bellici attraverso il suo territorio; infine l’Egitto, fucina di movimenti antagonisti, e l’Arabia (pure da sempre sospettata di alimentare il fondamentalismo). Un successo lampo come quello della Guerra dei 6 giorni, in cui Israele mise in ginocchio tutti i suoi vicini piccoli e grandi, è ormai solo un ricordo. Il solo Hezbollah, non uno stato ma un movimento armato, è bastato a impantanare Tsahal per un mese.

Se Israele saprà far tesoro della lezione libanese, e saprà arrivare a costruire un nuovo equilibrio regionale attraverso una pace giusta e soddisfacente con i suoi nemici interni e esterni, avrà tutto da guadagnare: perderà la supremazia assoluta in Medio Oriente, ma guadagnerà in sicurezza, e potrà essere elemento imprescindibile del nuovo ordine venturo.

Un Israele che poi riuscisse anche a superare la dimensione dello stato mono-confessionale, che divenisse promotore di una federazione con Giordania, Palestina e Libano (idea intelligente che periodicamente affiora nel dibattito sul futuro del Medio Oriente), ossia con l’elemento arabo più moderno e dinamico della regione, potrebbe davvero agguantare la soluzione definitiva dei suoi problemi.

Fantapolitica? Probabilmente sì. Ma la prospettiva alternativa è quella di una inevitabile, terribile resa dei conti – fra qualche anno, non di più - con un mondo musulmano incattivito, in cui l’odio per Israele già ora profondo, diffuso e incancrenito, potrebbe togliere le ultime inibizioni a uno scontro totale ove anche l’impiego di armi sporche (o dell’arma nucleare) sarebbe tutt’altro che inconcepibile. La vicenda dell’Israele contemporaneo, iniziata con l’Olocausto, potrebbe concludersi con un altro olocausto su più vasta scala…

Ma il Medio Oriente del dopo-Libano pone un problema enorme anche all’Europa, ben al di là della piccola questione dell’invio di un contingente multinazionale in loco.

La pace in Medio Oriente, che Israele non ha mai cercato seriamente dopo l’assassinio di Rabin, è ormai un interesse vitale dell’Europa che da quell’area dipende per le sue forniture energetiche, per lo sviluppo dei suoi commerci e delle esportazioni, per il costante afflusso di manodopera immigrata. Un’Europa che, oggi, sul Mediterraneo si gioca il suo futuro di grande potenza, e che ha ora la vera grande occasione di creare per la prima volta una propria politica estera, forte e autonoma.

Questa politica cozza inevitabilmente con le linee-guida dell’amministrazione Bush, così pesantemente condizionata dalla retorica della lotta al terrorismo mondiale da un lato, e dalle pressioni della potente lobby ebraico-americana dall’altro.

Uno dei misteri della politica estera americana, così pragmatica e orientata ai propri interessi in ogni altra parte del mondo, è proprio qui: nella pervicace politica di sostegno pressoché acritico alla politica israeliana, a dispetto e a prezzo dell’odio anti-americano e anti-occidentale crescenti nel mondo musulmano. Ma soprattutto – ulteriore mistero - a dispetto del fatto oggettivo che gli USA avrebbero tutto l’interesse a fare prioritariamente un accordo generale con gli arabi della zona, che rappresentano il 90 % della popolazione e occupano il 90 % del territorio.

Questa politica manifestamente illogica, auto-lesionistica e controproducente sotto vari aspetti, ha causato non solo un odio anti-occidentale di imprevedibile durata, un incipiente conflitto di civiltà, incomprensioni e razzismo crescenti; ha bensì attirato sugli USA, e sulla nostra Europa, i terroristi di tutto il mondo arabo, ha messo in pericolo la sicurezza dei viaggi e dei trasporti, ha in generale pericolosamente abbassato il livello dei diritti e delle libertà individuali. Tutto questo senza parlare delle guerre ormai cronicizzate in Afghanistan e Iraq, dove si stenta a intravedere una via d’uscita.

Proviamo ora a immaginare uno scenario diverso: Europa e USA congiuntamente esercitano le opportune pressioni (anche commerciali, finanziarie, ecc.) su Israele per indurlo con le buone o le cattive a fare un pace vera col mondo arabo-palestinese; contemporaneamente si avviano contatti con Siria e Iran (insieme agli altri paesi-chiave della zona: Arabia Saudita, Egitto,Turchia, Pakistan) per arrivare a una sistemazione delle questioni aperte (Libano, Iraq, Afghanistan) nel quadro di una grande alleanza tra mondo arabo-musulmano e potenze occidentali.

Il bilancio finale? Israele ne uscirebbe fatalmente ridimensionato, non sarebbe più l’interlocutore privilegiato dell’Occidente euro-americano, ma alla fine sarebbe probabilmente più sicuro nelle sue frontiere, deporrebbe per sempre l’elmetto per farsi promotore semmai della rinascita economica di tutta l’area.

Gli USA e l’Europa – scrollatasi di dosso la dubbia fama di filo-sionisti e di neo-crociati - potrebbero tirare il fiato sul fronte degli attacchi terroristici, e, nel quadro di una alleanza organica col mondo musulmano, potrebbero meglio attrezzarsi per fronteggiare la vera grande sfida globale del futuro: quella con la Cina del XXI secolo. Infine, il mondo musulmano, chiuso finalmente il capitolo della piaga palestinese, potrebbe magari beneficiare di un nuovo Piano Marshall per lo sviluppo economico e sociale dell’intera zona e avrebbe finalmente le carte giuste e le armi decisive per combattere alla radice la malattia del fondamentalismo, ossia: soldi e sviluppo accelerato.

In definitiva bisognerebbe cambiare tutto, rivoltare come un calzino la politica estera dell’Occidente. E’ solo un sogno? Temiamo di sì.

I vari Bush, Blair, Olmert e amici scodinzolanti non lasciano ben sperare. Ma l’alternativa a questo sogno, quasi certamente, è l’apocalisse prossima ventura. Dai frutti avvelenati della cattiva coscienza dell’Occidente, temiamo, può nascere solo un futuro mortifero.