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“Il baco del Corriere”

Massimo Mucchetti, Il baco del Corriere. Milano, Feltrinelli, 2006, pp.184, € 14.

Bruno Sanguanini

Annunciato dieci giorni prima dalla stampa nazionale come una sorta di libro maledetto sugli affari (economici, informativi, politici, culturali) che riguardano il passato ed il presente del Corriere della Sera, l’editrice Feltrinelli ha puntualmente fatto comparire nelle librerie, giovedì 16 novembre, il saggio giornalistico di Massimo Mucchetti. Con sei capitoli e 184 pagine, il columnist economico e vice-direttore ad personam del medesimo quotidiano ordina in maniera egregia il contenuto di documenti inediti, ritagli di stampa e appunti derivanti da colloqui interpersonali, delineando la storia degli intrecci fra economia nazionale e stampa di informazione. Concentra l’attenzione sui cosiddetti poteri forti, ovvero chi siede sul ponte di comando o davanti alla plancia del quotidiano di via Solferino a Milano. A centotrent’anni dalla sua fondazione, il giornale nazionale, storicamente più noto in Italia ed all’estero, merita senz’altro questo libro.

L’autore parte da un pretesto non poetico: l’avviso che il contenuto del disco fisso del suo computer d’ufficio è stato intercettato, letto e scaricato da un misterioso hacker. L’hacker, si sa, è il nomignolo che tutti attribuiscono ai pirati del ciberspazio. Supponendo che non si tratti di un gioco, Mucchetti si preoccupa subito di rileggere i suoi file per scoprire l’eventuale movente dell’apparente invisibile effrazione. Puntando il mouse sulla storia dei grandi azionisti finanziari che, dalla fine dell’Ottocento al fascismo, dal secondo dopoguerra ad oggi, hanno marionettato il giornale, scopre che il Corrierone ha una lunga vita in seno alla sfera pubblica nazionale grazie anche a un “baco”, ben rappresentato dal “buco” che, sfrangiando il titolo del giornale, campeggia nella copertina del libro feltrinelliano. I colori rosso-bianco-nero non sono né casuali né una mera invenzione grafica; lo scomparso Albe Steiner, grafico di prima fila della nostra stampa, saprebbe rispondere alla domanda.

Scrive Mucchetti: “Ho deciso di scrivere questo libro il 2 giugno 2006, dopo aver letto il Corriere della Sera, il mio giornale. La mattina di quel venerdì… avevo cominciato a sfogliarlo pieno di una curiosità non ordinaria: cercavo il resoconto e l’approfondimento della cover story che L’Espresso, in edicola in quelle stesse ore, sparava in primo piano come ‘007 Operazione Corriere’.

L’articolo del quotidiano milanese titola: “Indagine a Milano su incursione nei pc di manager Rcs”(la Rcs Periodici, per chi non lo sapesse, è l’editrice del Corriere, della Gazzetta dello Sport e di tanti settimanali e periodici nazionali. L’articolo è firmato P. B. (Pietro Gomez), giornalistico coltivatore dell’argomento ormai da mesi. La scoperta di essere bersaglio di un’intrusione informatica, avvenuta a fine 2004, ma scoperta recentemente grazie alle diverse inchieste giudiziarie sui vari casi di pirateria informatica illegale, è la molla a riaccendere il display e la tastiera del computer per rivisitare i propri file. Mucchetti non si chiede “Chi è stato”, bensì “Perché è successo?”. Così scopre un virus che viene da lontano, ma che, invece di invecchiare e consumarsi, rinasce e si rinvigorisce periodicamente.

Capita ogni volta che ci sono delle avvisaglie di crisi del “patto di sindacato” che sussiste tra i grandi azionisti che fanno consorzio per sedere tutti insieme sulla poltrona dell’editore. Ciò accade quando insorge una crisi finanziaria dell’azienda, un tentativo di scalata finanziaria del giornale da parte di un ospite non invitato, un’intrusione politica governativa: talvolta anche quando si rende necessario l’urgente cambio dell’amministrato delegato di Rcs o del direttore del giornale.

La sede del Corriere della Sera.

Per non togliere al lettore del libro il gusto della scoperta dei contenuti, faccio presente solo gli elementi di sfondo e qualche cornice di frangenti storici. Il “baco”, in via Solferino, si manifesta sin dall’epoca di Luigi Alberini, grande direttore ed azionista del giornale tra gli anni Dieci e gli anni Venti del secolo scorso. Già allora l’azionariato della stampa ebbe come attori degli industriali a base regionale. Tutti facevano ben altro che occuparsi primariamente di editoria o mezzi di comunicazione di massa. Finanziare un giornale era quasi un lusso di cui si servivano come leva sull’opinione pubblica, per esercitare un potere, per facilitare gli affari economico-finanziari dell’industria di famiglia nei rapporti con le istituzioni o i concorrenti. Da qui nasce la tradizione di governare il giornale dall’esterno della redazione. La perdita economica non era il peggiore dei mali. Ben più grave era perdere i contatti con i poteri forti della politica governativa, delle istituzioni pubbliche, del mondo finanziario.

Nel libro si fanno molti nomi, ma in maniera garbata e puntuale. In particolare, si citano i direttori e gli amministratori delegati del giornale, ma soprattutto i vertici di Rcs, Fiat, Rai, Telecom Italia, Mediaset, grandi banche, altre testate giornalistiche nazionali, Ifil, Fabbri Libri, Montedison, Iri, e Mediobanca. Insomma, chi manca non è per errore: comunque non se ne risentirà con il giornalista.

Seppure in epoche diverse, nel salotto buono del Corriere hanno trovato posto tutti i nomi che hanno marcato la storia nazionale dell’economia industriale, della politica governativa, dell’editoria. Con una costante: troviamo sempre i capitani della grandissima e medio-grande industria manifatturiera, da un lato, delle grandi aziende pubbliche, delle grandi banche con management più o meno a nomina pubblico-politica, dall’altro. Niente di strano. Si cambia opinione, però, appena ci si chiede come mai tanti poteri forti riuniti insieme abbiano portato non alla crescita dei consumi di stampa d’informazione tra gli italiani, ma a decenni di una linea orizzontale attestata su sei milioni di lettori.

Per l’autore, il “baco” del Corrierone è un virus che è di casa in tutta l’editoria del Belpaese. I giornali sono finanziati da imprenditori in “patto di sindacato” che governano in maniera andante ma non troppo: ma impugnano subito la bacchetta appena c’è un problema di affari da tutelare, spesso anche in barba agli interessi del giornale e della linea di lavoro già concordata con i suoi dirigenti.

Ciò è imputato alla natura industriale non “Media Centered” del grande azionista, ma anche ad una sfera politica che è restìa a legittimare il ruolo autonomo della stampa indipendente d’informazione, a una sfera pubblica istituzionale che guarda con l’occhio sinistro ai portabandiera dell’opinione pubblica.

Massimo Mucchetti.

Insomma, è un libro bello e intelligente. Per questo motivo consiglio di leggerlo con la dovuta pazienza. La soddisfazione non mancherà. Peccato che l’uscita a sorpresa in libreria sia stata in parte consumata dalla puntata de “L’Infedele” di giovedì sera 16 novembre. Mettendo in scena un talk show sui contenuti del libro, il conduttore ha sicuramente compiuto uno scoop e dato prova di libertà d’iniziativa, visto che la rete televisiva è di proprietà di Telecom Media Company, il cui azionista di maggioranza, Olimpia-Pirelli, è l’erede sulla poltrona di uno dei grandi azionisti storici del Corriere.

Impossibile non notare come, al di là del principale ospite, non sia chiaro come abbiano fatto gli opinionisti invitati da Gad Lerner a leggere il libro dal mattino al tardo pomeriggio. Per essere all’altezza dell’impegno probabilmente avranno usufruito di stralci a stampa o delle prime copie di tipografia. Così facendo, però, tutti hanno parlato di qualcosa di cui il pubblico dei telespettatori non era ancora a conoscenza. Certo che non è un bell’omaggio alla pubblica opinione critica!

La prova è fornita dalla recensione (arguta) della puntata televisiva che il giorno dopo è comparsa su il manifesto, la cui giornalista lascia più o meno volontariamente intendere che ha seguito il dibattito, ma non ha letto il libro, mi pare.

Casi del genere hanno un’eco un po’ stonata e lunga. A mio avviso, tradiscono la missione sociale che noi lettori e telespettatori attribuiamo – più o meno ingenuamente – ai mezzi di informazione. Comunque, il libro di Mucchetti ci risarcisce, togliendo un po’ di polvere dallo scaffale della storia del giornalismo contemporaneo.