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Evviva le riforme. Ma quali?

Franco Valduga

Che al loro congresso nazionale i DS abbiano scelto di essere un partito riformista non ci vuol molto a capirlo. Non riesco a capire però da dove sia venuta la necessità di un simile pronunciamento.

L’idea della conquista armata del potere era già stata abbandonata nella pratica dal PCI sin dalla fine della guerra, e abbandonata formalmente negli anni ‘50, col congresso della "via italiana al socialismo", fondata su riforme da realizzare anche con le lotte, ma in forma democratica e pacifica.

Da questa impostazione nacquero le varie riforme agrarie (ultima la legge che trasforma la mezzadria in affitto), la nazionalizzazione dell’energia elettrica, le scuola media obbligatoria e gratuita, la riforma sanitaria, lo Statuto dei Lavoratori, per citarne alcune.

Non furono riforme perfette, ma furono dei bei passi avanti. Tanto per intenderci, la riforma sanitaria, con la gratuità per tutti dell’assistenza medica, ospedaliera e farmaceutica, introduceva addirittura un elemento di comunismo ("a ognuno secondo i suoi bisogni"). Forse non ce ne eravamo nemmeno accorti.

Il problema, allora, non è se essere riformisti o no, ma quali riforme si vogliono fare, con quali contenuti. Non solo perché di "riforme" parla anche Berlusconi, qualcuna anzi l’ha già fatta e altre le sta preparando (quella per mettere i giudici alle dipendenze del governo, tanto per dirne una), ma perché le "riforme" perseguite o anche solo accettate senza grandi resistenze dai Ds - prima Pds - sono state più che altro controriforme. Dall’abolizione della scala mobile, alla "riforma" delle pensioni (meglio di quella proposta da Berlusconi, ma comunque infausta), all’abolizione del sistema elettorale proporzionale e alla personalizzazione della politica con i collegi uninominali, con l’elezione diretta di sindaci e presidenti di giunte provinciali e regionali, alla proposta di elezione diretta del presidente del Consiglio. Tutte cose sulle quali le valutazioni possono essere diverse, beninteso: ma proprio per questo ci sarebbe stata maggiore chiarezza se il congresso si fosse espresso su quali riforme, con quali contenuti, più che per una parola tanto usata da significare tutto e il suo contrario quale è ora il termine "riformismo".

Senza un’indicazione di ciò che si vuol fare, anche il partito unico dei riformisti, dei democratici, dei progressisti o come lo si voglia chiamare, resta qualcosa di ben scarso significato, e lo slogan "Per tornare a vincere" esprime un concetto che può andare bene per un’associazione sportiva, per la quale vincere è il fine. Ma per un partito, vincere - alle elezioni - è solo un mezzo, che dà maggiore forza per realizzare le proposte fatte.

Se queste proposte mancano, ogni vittoria resta una soddisfazione effimera che rischia di tradursi prima o poi in delusione amara. Non è già successo?

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