Un vescovo, la sua cattedrale, il suo tesoro
Il principato di Federico Vanga
La costruzione di una cattedrale dice già qualcosa sul profilo di colui che l’ha voluta, ma per chiarire meglio la personalità di Federico Vanga e il ruolo che svolse al governo del principato vescovile di Trento tra il 1207 e il 1218, si potrebbe partire dal fatto che, quando decise di costruire il nuovo duomo, nel 1212, la chiesa preesistente era stata ultimata da nemmeno settant’anni. Nessun crollo o evento devastante. A che si doveva tanto impulso ri-costruttivo?
La mostra in corso al Museo Diocesano (“Un vescovo, la sua cattedrale, il suo tesoro”, fino al 7 aprile), e il relativo catalogo, aiutano a capire quali fossero l’ambizione, il dinamismo, i riferimenti culturali, ma anche il “mandato politico” di questo figlio della nobiltà venostana.
Attraverso un insieme di oggetti, preziosi in sé, ma ancor più per il loro valore di documento, in parte commissionati o appartenuti al Vanga, accostati ad una misurata scelta di manufatti provenienti dal corredo di altri vescovi e principi a lui contemporanei, il percorso si sviluppa solo per brevi inquadrature su temi che avrebbero consentito maggiori sviluppi, demandando l’approfondimento su alcuni di essi e sul più ampio contesto storico e sociale al volume che accompagna la mostra e ne costituisce un completamento essenziale.
Nella prima sezione abbiamo le insegne del potere, e precisamente dei due poteri, religioso e politico (“temporale”), che in questa regione, come in molte altre dell’impero germanico, erano in capo alla stessa persona. Quello trentino era uno dei circa 90 principi ecclesiastici (c’erano anche gli abati) che si contavano a quel tempo (contro una ventina di laici). Quindi: il pastorale e la spada; la mitra e il sigillo; l’anello e il faldistorio, come si chiamava il sedile pieghevole e trasportabile del vescovo. Tutti questi pezzi appartennero a personaggi diversi dal Vanga, avevano talvolta provenienze o influenze stilistiche da botteghe e scuole dislocate in varie regioni europee, a dimostrazione che esisteva una notevole rete di contatti tra i pari di rango e una circolazione delle informazioni e del gusto.
Incontriamo però subito un oggetto che non appartiene al corredo generico di un principe vescovo, e dice come il Vanga volle interpretare il proprio ruolo, nel particolare contesto e momento storico in cui si trovò ad operare: è il Liber Sancti Vigilii, noto in seguito come Codex Wangianus, un voluminoso manoscritto, compilato tra i 1209 e il 1214 da parte di un gruppo di notai, in cui sono raccolti documenti che affermano, o riaffermano, i diritti e i privilegi della Chiesa trentina. È questa una fonte di straordinaria importanza per gli storici, che contiene, tra l’altro, quella che è considerata la più antica legislazione mineraria d’Europa (relativa allo sfruttamento delle miniere d’argento nell’area del Monte Calisio).
Il Codex contiene anche due dei sei “ritratti” pervenutici del Vanga, molto attento alla divulgazione della propria immagine: nel primo, reca in mano il pastorale e un libro; nel secondo, a scanso di equivoci, il pastorale e la spada. Egli trovò, al momento del proprio insediamento, una situazione abbastanza precaria del principato: nel 1172 il vescovo Adelpreto era stato ucciso dal feudatario Castelbarco; nel 1205 il vescovo Corrado da Beseno, sotto la pressione degli oppositori, si era dimesso. Si trattava di recuperare l’autorità e il prestigio, cosa che stava sommamente a cuore agli imperatori germanici per l’importanza strategica del territorio trentino (famoso il diploma di Federico Barbarossa per il vescovo di Trento, nel 1182, teso a bloccare le aspirazioni dei ceti urbani trentini). Il Codex fu probabilmente l’iniziativa più efficace (non l’unica) per riaffermare l’autorità del principe ecclesiastico, non priva di abilità politica (il metodo del confronto fu praticato più che in passato), ma entro una logica ancora tutta feudale, di conferma di rapporti vassallatici, in un’epoca in cui altrove, in Italia e in Europa, nuove forze sociali ed economiche si facevano strada.
Nel suo programma di ripristino del prestigio, il Vanga si avvalse dell’appoggio dell’imperatore Federico II, che gli era imparentato, e che lo nominò suo vicario per l’Italia settentrionale. In tale veste il principe vescovo viaggiò molto, il che gli permise di vedere e in parte di emulare le realizzazioni dei suoi omologhi in altre sedi. Una sezione della mostra lo ricorda, presentando il suo altare portatile (da poco restaurato) e alcuni raffinati cofanetti in avorio, di manifattura arabo-sicula, che gli appartennero. L’ultimo viaggio, come narra una singolarissima nota biografica affiancata al suo nome nel Sacramentario Udalriciano, fu in Palestina, nell’ambito della quinta crociata, dove morì ad Accon il 6 novembre del 1218. La fabbrica del duomo era da poco avviata: di essa si occuparono Adamo d’Arogno, i suoi figli e nipoti, come sappiamo da una lapide funeraria (salvata dal degrado e qui esposta), unica fonte che ci informa sull’anno in cui Federico Vanga avviò la costruzione della cattedrale di Trento.