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“Whiplash” di Damien Chazelle

Non solo tecnica

Andrew Neiman è un ambizioso studente di batteria jazz presso un esclusivo conservatorio di New York. Motivato dalla passione e dalla paura del fallimento, che vede rappresentata nel padre, sogna di diventare il migliore. Quando l’insegnante Terence Fletcher, conosciuto tanto per il suo talento quanto per i metodi brutali, lo nota e lo inserisce nel suo gruppo jazz, la ricerca della perfezione si trasforma in ossessione, con comportamenti competitivi al limite della scorrettezza.

L’arco narrativo è minimo e prevedibile, con la solita ascesa, caduta, vendetta e conciliazione finale. Niente più che un pretesto per disseminare atrocità a ritmo teso e incalzante. Indubbiamente le sequenze musicali sono accattivanti, precise, emozionanti. Le interpretazioni professionali, per quanto retoriche. Ma il film non convince per gli elementi di fondo.

Non ho mai sopportato la tipica mentalità americana, che sottende il film, per cui o sei il migliore o non sei nessuno. Il massimo o non esisti. Questo semplicistico dualismo (love it or live it...) privo di sfumature è stupido, irreale, falso, classista, limitante, ingiusto. Sono per un mondo dell’inclusione e non dell’esclusione e mi trovo insofferente davanti alla rozzezza di schematismi banali stile: vincenti e perdenti. Altrettanto mi deprime tutta questa competizione in nome di una pretesa eccellenza elitaria e individualistica vissuta come mito/obiettivo esistenziale.

Inoltre la ricerca della precisione tecnico/esecutiva è certamente importante nel jazz d’orchestra, ma non è la sola e assoluta.

Creatività, espressione, anima, desiderio comunicativo, sensibilità, fantasia, trasgressione alla regole sono altrettanto, se non più importanti in tutta la musica afroamericana.

Certo sono essenziali impegno e lotta per arrivare ai risultati cercati, ma non è necessaria la violenza psicologica, fisica, verbale e l’umiliazione che spesso, più che riscatto, suscitano senso di inferiorità, abbandono, vendetta.

Così non convince un film in cui la reazione positiva a tutto questo del giovane Andrew è intesa come unica maniera per la crescita ed emancipazione dai propri limiti. E nemmeno è accettabile come giustificazione per l’insegnante Terence Fletcher, che sottopone gli alunni a competitività, stress schiacciante, odio reciproco, al fine di raggiungere la perfezione formale, da esigere anche con ripetizioni infinite, maltrattamenti e frustrazioni.

Presupposto emblematico di questa ossessione è il ricordo di un episodio della vita di Charlie Parker in cui il sassofonista, intervenendo da giovane a una jam session e trovato ancora insufficiente, venne cacciato dal batterista che gli lanciò un piatto (caduto ai suoi piedi e non sfiorandone la testa, come erroneamente riportato nel film). Ma è un lettura limitata della storia dell’artista, il quale ha ricevuto sì una sonora lezione che l’ha spinto a studiare e perfezionarsi, ma non si può poi circoscrivere il suo valore artistico al raggiungimento di una supposta perfezione esecutiva. Per quanto fosse diventato bravo, non erano certo solo tecnica e precisione a infiammare le platee dell’epoca. Trasgredendo, sfregiando, ridicolizzando la tradizione e la perfezione Parker ha creato il bebop, col raddoppio del ritmo dei brani swing da orchestra e la sistematica messa al bando di tutto quello che era banale, scontato, ballabile o gradito al pubblico medio dei tardi anni Quaranta.

In definitiva, no all’eccellenza come unica ragione e motivazione per l’espressione artistica. No ai metodi coercitivi e ricattatori, pur mantenendo rigore e impegno.

Comprendo che più che una critica cinematografica esprimo giudizi psicologico/didattici per i quali, per altro, mi sento molto meno autorizzato a parlare. Ma è proprio il film che obbliga a una tale lettura, tanto mostra esso stesso di essere impeccabile nell’esecuzione (ritmo, montaggio, interpretazione), quanto irritante, discutibile e conservatore nella sua materia e anima profonda.

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