“Game of Thrones”: il Medioevo come non l’hai mai visto
"Trono di spade": un grande racconto, che ci fa entrare in un’epoca lontana; personaggi vivacissimi e innovativi; una sontuosa realizzazione. Ma poi, quando gli sceneggiatori di Hollywood devono contare solo su se stessi…
Ad appassionarmi dapprima, erano stati soprattutto i costumi. Così credibili e che al contempo accendevano l’immaginazione. E ti rappresentavano un Medioevo vero, che ti sembra lì, reale, dentro lo schermo; ma che hai anche dentro le fantasie. E poi le ambientazioni: castelli anzitutto, cupi, oppure possenti, oppure ancora fantasiosi; e il Vallo di Adriano diventato la Barriera, 300 metri di ghiaccio in altezza e tutto il continente in lunghezza; e poi le splendenti città mercantili, i lussureggianti giardini dell’infida capitale… Così, da uno zapping un po’ casuale sono rimasto avvinto dal “Trono di Spade”, la serie tv più vista e premiata: ho regalato a parenti e amici i cofanetti con le varie stagioni (70 ore di cinema), abbiamo iniziato visioni collettive, discussioni di commento, ho comperato, letto e regalato tutti i libri (4-5000 pagine) da cui essa è tratta, “Le cronache del ghiaccio e del fuoco” di George Martin.
Costumi e location peraltro così importanti (sparse le seconde tra Irlanda, Islanda, Inghilterra, Marocco, Malta, Croazia e altri paesi ancora, e diventate mete turistiche) sono però, in fin dei conti, solo l’intelligente confezione. Ad appassionare sono i personaggi, le loro vicende, il mondo antico e arcano in cui si muovono. George Martin è un geniale furbacchione: dopo mille pagine, dopo 10 ore di cinema, fa uccidere il personaggio in cui ti identificavi: forte, leale, coraggioso, ma anche padre e marito sensibile, intelligente e potente; a Eddard Stark, signore del Nord, affidavi le speranze di giustizia in un mondo crudele e meschino; ma lui finisce con la testa infilzata su una picca a ornare le mura della città. Ti si stringe il cuore e sei risucchiato dentro la storia. Che però riuscirà a vivere di tutt’altro che dello scontato meccanismo torto/vendetta.
È una storia in cui ci sono i cattivi (peraltro con una loro umanità) e ci sono i buoni (con i loro difetti); ma questi ultimi, come abbiamo visto con lord Stark, non sono protetti dagli dei o dagli sceneggiatori, se sbagliano pagano anche loro, in genere con la vita. E tu, davanti alla tv o con il libro in mano, rimani basito. Internet è piena di filmati di spettatori che, allo svolgersi del truce episodio delle “nozze di sangue” - con il protagonista massacrato a tradimento dagli ospiti, e con lui la madre e la moglie incinta, e tutto il suo seguito, il suo esercito, in pratica il suo popolo - balzano dalla sedia o dal divano, gridano, giurano che “questa cosa non la guarderò più”; io l’episodio l’ho letto al mare, su una sdraio e per quindici minuti sono rimasto scosso, immobile, senza fiatare.
In realtà queste svolte drammatiche hanno un senso storico, una logica spesso stringente. Sono aderenti alla realtà molto più delle nostre aspettative. “Game of Thrones” infatti capovolge la scala valoriale dello spettatore: il potente non deve seguire i suoi sentimenti, anche i più nobili, ma la ragion di stato. È questa che deve prevalere, sempre, anche sui valori etici, anche sulla vita dei congiunti; quando non si segue questo principio, accadono i disastri. È dolente - e lugubre - l’ammissione di Eddard Stark: “Ho peccato di troppa umanità”, avrei dovuto essere spietato.
E allora, in questa realtà così cupa, assumono un diverso significato i principi etici medioevali, da noi altrimenti sbeffeggiati: onore, lealtà, fedeltà (al tuo signore) paiono gli unici valori su cui può poggiare una società altrimenti disgregata, continuamente percorsa da una brutale, endemica, distruttiva violenza. Quando 50 ore di film dopo l’ormai digerita e rimossa decapitazione di Stark, o dopo 4000 pagine di libro o un lungo numero imprecisato di anni, di guerre, di efferatezze, quando allora ci sarà un piccolo feudatario, o un villico che vorrà ribadire: “Il Nord, Eddard Stark non lo dimentica” tu capisci, nel 2000, quanto questi valori, secoli fa, fossero fondanti. È questo continuo rimando dalla fantasia alla storia, e poi ancora alla fantasia, a rendere le vicende narrate così piene, plausibili, appassionanti. Entri in una realtà lontana, ancestrale, eppure viva e credibile.
Poi, certo, non è un romanzo storico, è un fantasy: ci sono i draghi, le premonizioni, i morti viventi ed altro ancora. È l’aspetto che può meno piacere: anche perché spesso sembra un sotterfugio, un espediente dello scrittore navigato per sopperire a carenze di creatività con la facile moltiplicazione degli artifici narrativi. Ci sono anche altri difetti, tanti; tra fan smaliziati ci ritroviamo ad enumerarli: l’introduzione, tanto per allungare il brodo, di sempre nuovi personaggi e scenari; spiegazioni forzose di eventi decisivi; e per converso importanti svolte narrative riassunte in poche sbrigative righe, neanche fossero dei meri appunti per un prossimo libro. George Martin è dotato di una grande, vigorosa creatività, è riuscito a generare un vivacissimo mondo parallelo, all’interno del quale però, a un certo punto sembra perdersi.
È un peccato. Grave ma non gravissimo, di fronte alla vivacità della storia e all’innovatività dei personaggi. Per capirci, ne tratteggiamo i due più significativi.
I più amati
Il personaggio più famoso, anche grazie al perfetto physique du rôle e all’interpretazione di Peter Dinklage, è Tyrion Lannister, il Folletto. È un nano, esponente della ricchissima e potente casata dei Lannister, rivale degli Stark: intelligente, arguto, anche troppo spiritoso, il giovane Tyrion si trova in perenne lotta per non soccombere di fronte all’aperta ostilità del padre Tywin, che vive la deformità del figlio come il fallimento dei propri geni. Il giovane cerca rifugio nella crapula e pensa di trovare un’identità nelle urticanti spiritosaggini che sparge intorno, neanche fosse un buffone di corte; finché non scopre come, nelle mani di un uomo di potere come lui in fondo è, intelligenza, astuzia e cultura possano essere acuminate armi anche in ferini tempi di guerra. A questo contrasto se ne sovrappone un secondo: lo sgraziato nanetto è anche dotato di umanità, al contrario del padre, tanto intelligente quanto spietato, e della sorella, perfida regina: così utilizza le proprie doti per contrastare i torbidi intrighi dei parenti. Che sono più potenti di lui e con meno scrupoli, per cui si trova a “pattinare su un ghiaccio molto sottile” come dice di se stesso. Questi elementi si fondono e trovano l’apice narrativo quando, nel processo farsa con cui padre e sorella lo mettono a morte, in un veemente discorso non si difende confutando prove contraffatte, bensì accusando e maledicendo la corte, i nobili, il popolino che, immemori di essere stati da lui salvati, lo detestano per piaggeria, ma soprattutto per i pregiudizi nei confronti della deformità. È una potente, commovente scena, nel libro e nel film: il nano, sull’equazione deforme=malvagio (e per converso sulla kalokagazia, bello=buono, dei greci antichi, e anche un po’ nostra) ci sputa sopra, con immenso, sacrosanto, catartico disprezzo.
L’altro personaggio che è difficile non amare è Arya Stark. 11 anni, figlia del grande lord Eddard, dovrebbe essere una principessina. In realtà è un ragazzaccio, detesta danze,liuti e merletti, preferisce giocare con le armi e fare comunella con gli stallieri; il padre, comprensivo, assume a corte un rinomato maestro di scherma solo per lei. Poi il golpe, che fa fuori Eddard Stark e tutto il suo seguito: la ragazzina fugge dalla reggia, vive di espedienti nei vicoli della capitale, inorridita assiste alla pubblica decapitazione del padre. Quindi s’inoltra verso nord, per raggiungere i fratelli che hanno radunato un esercito, prima per salvare, poi per vendicare lord Stark. È un viaggio tra le infamie della guerra. Il conflitto ci viene così mostrato non solo al livello degli accordi politici e dinastici che allestiscono eserciti; non solo al livello della strategia militare; e di quello dello scontro armato; ma con Arya lo vediamo al livello della popolazione civile, vessata, spogliata anzitutto dalle truppe, e sotto di esse da bande collaterali di torturatori e stupratori, che per gli eserciti fanno il lavoro più sporco. La ragazzina (vestita da maschietto per limitare il rischio di stupro) viene fatta prigioniera da due di queste bande e le tocca assistere a una serie di nefandezze: stringe i denti, si addormenta la sera recitando la “lista dell’odio”, i malvagi che vuole morti; sopravvive grazie alla sua prontezza e alla fortuna, cresce in determinazione, destrezza e scaltrezza; soprattutto riesce a non perdere la propria umanità. Può sembrare una storia di infanzia sfruttata ed abusata, in stile Oliver Twist o David Copperfield; ma Arya, in un miserabile universo fangoso, affollato di derelitti e di malvagi, non è mero oggetto di soprusi: impara a difendersi, a ingannare, a uccidere. Ben presto lo spettatore non la compiange, la ammira, la ama, per l’immenso coraggio e la straordinaria forza interiore.
Nelle mani degli sceneggiatori
Fin qui non abbiamo fatto distinzioni tra i libri e la serie tv dell’emittente HBO, nella quale peraltro George Martin è coinvolto. In genere la serie segue la lettera e lo spirito dei testi, con qualche alleggerimento degli intrecci narrativi; l’aggiunta di ulteriori, gratuite, scene di sesso; alcune modifiche\semplificazioni che snelliscono il racconto, altre inserite per giustificare lo stipendio degli sceneggiatori.
Poi Achille raggiunge la tartaruga: la serie è arrivata alla fine dei libri di Martin, che dal 2011 non completa la saga. Forse perché distratto dal successo, oppure dalla collaborazione alla tv, oppure più semplicemente non riesce a tirare le fila di un’epopea troppo vasta e concluderla con un finale all’altezza delle forse eccessive attese.
Sta di fatto che, esaurita in 5 stagioni la pur ampia scorta di avvenimenti narrati da Martin, bisognava comunque andare avanti: non si può lasciare una storia in sospeso, soprattutto se i fan sono milioni in tutto il mondo, e altrettanto milionario è il giro d’affari messo in moto. Così, con la sesta stagione, e ancor più con la settima, “Il trono di spade” è nelle mani degli sceneggiatori americani. E si vede.
Intendiamoci, ci sono ancora episodi di grande drammaticità e coerenza rispetto al pregresso. La strage di stato ordita dalla Regina Cersei, la conclusione del noviziato di Arya presso la Setta degli Assassini (con un quasi esplicito rimando, fin nei dettagli, al “Tito Andronico” di Shakespeare), la tragica fine della spedizione al nord di Stannis Baratheon (con un altro rimando classico, a “Ifigenia in Aulide”), la presa del potere Dothraky da parte di Daenerys Targarien (che riecheggia, con grandiosa forza visiva, l’omerica strage dei Proci) sono tutte pagine filmiche di grande impatto drammatico e coerenza narrativa. C’è forse ancora la mano di Martin?
Difficile a dire, e le testimonianze dei produttori come dello stesso ben foraggiato scrittore sono inattendibili. Di sicuro però a un certo punto l’originalità della saga sembra smarrirsi e riemergere invece la routine dei luoghi comuni hollywoodiani, anche i più triti.
Anzitutto compare il mito dell’eroe. In Martin, eroi non ce ne sono, i più forzuti e valorosi cavalieri, così utili nei duelli, in battaglia sono insignificanti, le guerre vengono decise da azzeccate scelte strategiche, o - molto più spesso - dalle alleanze politiche, o da un tradimento, o da un assassinio. L’eroe poi, per Hollywood, dev’essere senza macchia e senza paura, e soprattutto seguire il suo animo nobile; e così se ne va a quel paese il principio della ragion di stato per cui il leader non deve seguire il proprio cuore ma fare quello che è conveniente per il suo popolo o il suo esercito. Vediamo invece l’eroe John Snow scompaginare irrimediabilmente il suo esercito, perché deve assolutamente tentare di salvare la vita del fratello. Non ci riesce, e per di più consegna le sue truppe al nemico. Tutto finito? Snow, nobile ma stupido, paga per la sua insipienza? Neanche per sogno: mentre i suoi uomini stanno per essere macellati, dall’orizzonte spunta un’altra armata di inattesi alleati, che capovolgono le sorti della battaglia. È il più classico degli “Arrivano i nostri!”, penoso artifizio narrativo dei western anni ‘50, al tempo giustamente sbeffeggiato e che segnò l’esaurirsi di un genere.
Sempre in tema di battaglie, gli strateghi dell’HBO riescono a far spuntare eserciti in ogni dove, forse teletrasportati. George Martin faceva precedere gli spostamenti delle armate da laboriosi accordi tra feudatari (siamo nel Medioevo: ti faccio passare sul mio territorio se…) che spesso implicavano anche matrimoni dinastici; e in ogni caso i movimenti delle truppe erano condizionati dalla geografia - monti da aggirare, fiumi da attraversare - per cui per capire certe situazioni bisognava riferirsi alla carta geografica del pur immaginario mondo da lui creato.
All’HBO niente di tutto ciò: in barba anche alla rete di esploratori di cui ogni armata nei secoli, si è dotata, qui compaiono dal nulla 100.000 cavalieri Dothraky ad attaccare l’esercito dei Lannister, che peraltro prima era apparso anch’esso dal nulla a espugnare il castello dei Tyrrell, ecc.
Poi, intendiamoci, i registi sono sempre eccellenti, le riprese bellissime; ma lo spettatore un po’ smaliziato si sente preso in giro: se ora vi siete messi a fare uno spettacolo per undicenni, fatecelo sapere.
Personaggi che girano a vuoto
Non basta: non è solo la credibilità storica, la verosimiglianza a venir meno. È anche la capacità creativa. In particolare i personaggi più innovativi perdono di slancio, la loro storia si arena. Sembra che gli sceneggiatori non sappiano più cosa fargli fare.
Il primo a girare a vuoto è Tyrion Lannister. Catapultato nel continente orientale, il piccolo grande nano assume un ruolo sbiadito, di consigliere, neanche tanto avveduto, di Daenerys Targarien. Peter Dinklage ce la mette tutta, riesce a sprizzare ancora tanta simpatia, ma il personaggio ormai gira a vuoto.
Analogo il caso di Arya Stark. Approdata anche lei nel continente orientale presso la Setta degli Assassini, gli sceneggiatori ne descrivono la lunga iniziazione seguendo un percorso diverso ma parallelo a quello descritto da Martin nell’ultimo suo libro, e se la cavano bene. Non male anche i primi passi oltre i libri: l’affrancamento dalla setta e lo sterminio dei traditori Frey. A questo punto però non sanno più come andare avanti: Arya si incammina per andare a uccidere la regina Cersei Lannister, che se lo meriterebbe, ma sarebbe la fine della serie. La ragazza viene quindi dirottata verso il castello degli Stark, dove si sta riunendo quel che ancora resta della sua famiglia. E qui, per riempire ore di programmazione, si inventano incomprensioni con la sorella maggiore Sansa, che sarebbero da telenovela, se non fosse per il clima truce della saga, che porta i litigi familiari verso il fratricidio. Invece, per fortuna il tutto si risolve con Arya che sgozza il perfido individuo dedito a attizzare i contrasti tra le sorelle. Morte strameritata, il tipaccio, tra altre nefandezze, a suo tempo era stato autore del tradimento ai danni di Eddard Stark; ma è tutta la storia che proprio non regge, la sceneggiatura mal scritta, l’esito truculento francamente indigesto. E Arya, da personaggio sempre positivo pur in situazioni estreme, dopo anni di traversie, giunta a casa, tra i suoi, diventa, affidata ai mestieranti della scrittura, ambigua, tenebrosa, disumana.
Sembra proprio che l’industria dello spettacolo non riesca ad essere all’altezza della complessità della narrazione e dei personaggi di un geniaccio come George Martin.
I soldati e la ragazza
Arya Stark a cavallo si addentra in un bosco. Scorge un gruppo di soldati che bivaccano, cerca di evitarli, ma è tardi. La invitano a unirsi a loro. “Non penso sia una buona idea” risponde.
Gli altri insistono, stanno arrostendo allo spiedo delle lepri, “Non voglio portare via il cibo a nessuno”.
“Ma no, ce n’è in abbondanza”.
Si vede dalle insegne che sono soldati dei Lannister, quindi nemici; ma ostinarsi a rifiutare sarebbe sospetto. La ragazza si accomoda tra loro. Lo spettatore entra in tensione.
“Da dove venite?”
“Erano sorti dei problemi dai Frey. Abbiamo messo le cose a posto”. Vale a dire l’esercito dei Lannister ha insediato un nuovo feudatario, al posto dei Frey traditori (degli Stark) che proprio Arya, insinuatasi come servetta, aveva, con il pugnale e il veleno, giustiziato. Andiamo bene!
Arya, in mezzo ai nemici, dissimula, ma è tutta in tensione. Il fatto è che i soldati sono otto, probabilmente troppi anche per lei pur così fulminea e letale, e sono uomini di spada. Lo spettatore è sempre più a disagio, in “Game of Thrones” vige la regola del mondo reale: “Ognuno può morire”, anche i personaggi più amati.
Invece no. I soldati sono giovani, sono bravi ragazzi, parlano con dolcezza della famiglia a casa, che presto riabbracceranno; scherzano tra di loro e con la ragazza, una gentile presenza dopo settimane di asprezze.
Arya ci mette poco a trovarsi a suo agio: non ha problemi con la gente anche umile, per mesi ha fatto il mozzo su una nave, la pescivendola nella città libera di Bravos (una sorta di Venezia), dove era benvoluta e rispettata, “la gatta dei canali” la chiamavano, perché dolce e gradevole, sebbene con gli artigli.
In breve tra il gruppo di giovani c’è una bella empatia. Le preoccupazioni dello spettatore cambiano: basta poco perché l’incantesimo si rompa e un incidente sveli la verità; per diversi di quei ragazzi, forse per tutti sarebbe la fine. Perché le cose devono sempre andare in questo modo, con i giovani che potrebbero essere amici, e invece si fanno a pezzi?
E difatti l’incidente succede: “Ma cosa ci fa una bella ragazza come te in questo bosco?”
“Sto andando verso la capitale”.
“A farci cosa?”
Arya esita un attimo, poi risponde con la verità: “A uccidere la regina”.
Subito cala il gelo. La regina è Cersei Lannister, è la “loro” regina. I volti dei soldati si rabbuiano, si induriscono, anche la ragazza non ride più, anzi si tende, pronta a scattare. Allo spettatore si ferma il cuore. Poi uno dei soldati si mette prima a sorridere, poi a ridere, e poi un secondo, un terzo: via, la regina è seguita passo passo da un guerriero gigantesco, è protetta da una guardia personale di 200 uomini scelti, e poi dai 6000 della Guardia Cittadina, e infine dall’esercito del suo casato! Era solo una battuta, uno scherzo! Tutti si mettono a ridere, anche Arya, la testa riversa all’indietro, ride di gusto. Lo spettatore si rasserena: stavolta non finirà in un massacro, quei bravi ragazzi potranno tornare tutti a casa.
Quest’episodio nei libri di Martin non c’è, è un frutto della fantasia degli sceneggiatori della HBO. Che evidentemente sanno suscitare, far crescere l’interesse dello spettatore, sanno giocare con le sue aspettative e i suoi sentimenti. Bravi, quindi. Però…
Però l’episodio non è logico, non è minimamente realistico. Che bisogno aveva Arya di dire la verità? Figuriamoci se non aveva pronte almeno due-tre storie da raccontare ed altrettante identità da assumere. Cosa l’aveva presa, l’amore per il rischio? Per la spavalderia? Anche a costo di mettere in gioco la sua vita, e quella degli incolpevoli soldati?
Il problema è che gli eroi dei nostri film di avventura in genere sono degli insopportabili spavaldi. Cinicamente incuranti delle vite altrui e della propria (tanto, è protetta dagli sceneggiatori e dalle aspettative dei fan). Evidentemente gli autori dell’industria del cinema, da bravi artigiani, tendono sempre a seguire schemi collaudati. E francamente stantii.