Novità da San Michele
Una buona notizia per l’ambiente: da vitigni di Teroldego e Nosiola sono nati quattro vini “resistenti”
Da qualche mese Teroldego e Nosiola trentini hanno “generato” dei figli resistenti a oidio e peronospora, le malattie notoriamente più dannose nella coltivazione della vite. Dopo dodici anni di paziente lavoro in laboratorio, nei campi sperimentali di Navesel (Rovereto) e di Telve (Valsugana), e nella cantina di micro vinificazione, la fondazione Mach (Istituto Agrario di San Michele all’Adige, ora FEM) ha registrato e presentato ufficialmente quattro nuove varietà che sono state “battezzate” rispettivamente Nermantis e Termantis, figlie del Teroldego, Valnosia e Chavir, quelle generate dalla Nosiola.
Più che di vitigni resistenti, bisognerebbe però parlare di varietà tolleranti. “Il fatto che queste varietà siano resistenti non vuol dire che non necessitino di trattamenti. – ha spiegato Maurizio Bottura responsabile del settore all’interno del CTT (Centro Trasferimento Tecnologico) di FEM - In base alle annate sono necessari 3-4 trattamenti, almeno uno prima della fioritura e gli altri dopo. Ma evidentemente i risultati che danno queste varietà di nuova generazione sono interessanti anche dal punto di vista ambientale, essendo viti che trovano la loro collocazione ideale nelle zone sensibili, come in prossimità di abitazioni e piste ciclabili, ma anche in funzione del raggiungimento dei nuovi obiettivi posti dall’Unione europea di abbassare fortemente l’uso dei prodotti fungicidi in viticoltura”.
È evidente (vedi scheda in basso) che la diffusione di vigneti resistenti/tolleranti alle principali malattie delle piante, in una realtà di quasi monocultura come quella trentina, renderebbe un ottimo servizio all’ambiente ed agli insediamenti abitativi che spesso confinano con i campi.
Le nuove varietà sono state presentate nel corso di un convegno svoltosi il 5 marzo scorso a cura di FEM e di CIVIT (un consorzio che include i vivaisti, cioè coloro che producono le “barbatelle”, cioè le piante di vite acquistate dagli agricoltori per rinnovare i vigneti).
Nel progetto di ricerca è stato coinvolto il mondo produttivo trentino con Cavit, Mezzacorona, Cantina Lavis e Cantine Ferrari soggetti ai quali spetterà evidentemente il compito di convincere i consumatori ad accettare questi nuovi prodotti.
Più facile risulterà convincere invece i contadini che, a parità di remunerazione, non vedono forse l’ora di finirla (o quasi) con i trattamenti.
I quattro vitigni, figli di varietà tipicamente trentine come Teroldego e Nosiola, erano stati iscritti nel giugno scorso nell’apposito registro del ministero dell’Agricoltura con le loro sigle “F22P9”, “F22P10”, “F23P65”, “F26P92”. Codici che dicono poco ai non addetti ai lavori, ma che danno l’idea del volume degli incroci (si è partiti da un semenzaio di oltre mille soggetti via via selezionati allo scopo di isolare quelli con le caratteristiche migliori) che sono stati necessari per giungere al risultato finale.
Come già detto, il progetto è partito 12 anni fa. “Ma si tratta in realtà di un’attività – ha specificato Marco Stefanini, coordinatore del team di ricerca sul miglioramento genetico della vite a San Michele – che risale agli anni ’80 e ’90, con il reperimento delle prime fonti di resistenza”. Un’attività di selezione e incrocio andata avanti, poi interrotta e ripresa in grande stile nel 2007-2008, in concomitanza con il primato nella codifica del DNA della vite.
Per testare e valutare poi le qualità del vino prodotto dalle nuove uve sono state necessarie 3-4 vendemmie. Tutte quattro, queste nuove cultivar, a detta dei tecnici, hanno prodotto vini nettamente comparabili con quelli dei genitori Teroldego e Nosiola.
Fitosanitari e agro farmaci in Trentino
Non ci sono dati ufficiali ma si può stimare che annualmente, ogni ettaro di vigneto sia trattato con circa 30 kg di prodotti per la protezione delle piante. Si tratta di una quantità che negli ultimi anni è andata aumentando (qualche anno fa il peso era pari a circa 25 kg) a causa del fatto che ora sono usati in agricoltura maggiori quantità di prodotti meno impattanti come rame e zolfo. Quest’ultimo “pesa” infatti, quasi 25 kg sui 30 complessivamente usati. Zolfo e rame, sicuramente meno dannosi per la salute umana, per essere efficaci devono però essere usati in proporzioni maggiori (anche dieci volte rispetto ai più potenti ma dannosi prodotti chimici di sintesi) e ciò spiega, appunto, l’aumento del carico complessivo dei trattamenti avvenuto negli ultimi tempi anche a causa dell’incremento della superficie trattata con metodo biologico che, come noto, esclude l’uso di prodotti sintetici, ma ammette invece prodotti più naturali, come appunto zolfo e rame. Insomma, una misurazione quantitativa non è l’unico fattore utile per valutare l’impatto dei prodotti utilizzati per la protezione delle piante.