Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca

In Cisgiordania, intanto...

Una famiglia capeggiata da una nonna che ha attraversato tante guerre, ma non ha mai smesso di trasmettere ai figli e nipoti il suo messaggio: quella terra appartiene a loro ma solo con la nonviolenza riusciranno a vincere. Da “Una Città”, mensile di Forlì.

Sono una giovane attivista del villaggio di At-Tuwani e vengo da una famiglia che ha una lunga storia di lotta nonviolenta. Tutti i miei familiari sono militanti, a partire dalla nonna e poi mio padre, i miei fratelli, mia madre e mia sorella. Abbiamo sempre creduto e ci siamo impegnati in questa forma di resistenza.

Il nostro villaggio si trova nell’area meridionale della Cisgiordania, ci vivono circa 500 persone; è la porta d’accesso a Masafer Yatta. Le persone sono sparse in piccoli agglomerati, molte sono costrette ad abitare in grotte a causa del controllo israeliano che non permette di costruire una casa normale. Il mio villaggio ha un piano regolatore di circa tre ettari, il che significa che ci è permesso avere abitazioni e alcune infrastrutture. Abbiamo ottenuto questo dopo una battaglia, durata oltre dieci anni, con i tribunali israeliani, e grazie a un forte sostegno internazionale. Qui almeno abbiamo delle case, l’acqua, l’elettricità. Ma nel resto dei villaggi, più di 30 comunità, la gente vive in condizioni precarie.

I coloni che vivono vicini ai villaggi palestinesi affermano che non abbiamo il diritto di stare qui e prendono di mira le persone giorno e notte, e poi ci sono gli interventi dei soldati.

Nel 2004 e anche nel 2006, hanno cercato di costruire un muro di apartheid all’ingresso del nostro villaggio, per separare l’area dalle altre zone della Cisgiordania e dalla città di Yatta. La gente ha fatto molte manifestazioni e grazie al sostegno internazionale è riuscita a far spostare il muro dell’apartheid. Ma le minacce di pulizia etnica continuano e dopo il 7 ottobre, gli attacchi si sono fatti più intensi.

La nostra vita quotidiana è una routine spaventosa, perché viviamo vicini agli insediamenti e le minacce sono continue. Gli internazionali accompagnano i bambini, che per raggiungere la scuola devono attraversare le colonie, e al pomeriggio rifanno lo stesso percorso. Ormai ci sono colonie accanto a ogni villaggio. Poi c’è il problema dei contadini e dei pastori che devono poter accedere alla loro terra per coltivarla e prendersi cura del gregge. Purtroppo proprio la terra è ciò che ci viene tolto: ci sono frequenti confische per via dell’espansione degli insediamenti.

Yatta, Cisgiordania, demolizione di una casa palestinese

La sfida, ogni mattina, è quella di riuscire a raggiungere il campo. Gli “internazionali” si occupano anche di accompagnare i contadini e i pastori affinché possano svolgere le loro attività. Per fortuna nel nostro villaggio siamo riusciti a costruire una scuola internamente, ma i bambini dei villaggi circostanti devono venire qui.

Purtroppo, da quando è scoppiata la guerra, le scuole sono state chiuse per mesi. La situazione era folle: sparavano e attaccavano ovunque. Questi bambini hanno già perso un anno di scuola.

Capita che i coloni indossino la divisa e attacchino la gente, sparando come se fossero parte dell’esercito o comunque sotto la protezione dei soldati. Noi è da quando siamo bambini che assistiamo alle incursioni e agli arresti. Forse ora la gente inizia a capire cosa abbiamo vissuto negli ultimi settant’anni, cos’è l’occupazione israeliana e come questa gente si comporta con dei civili.

Io stessa ho visto i coloni e i soldati attaccare mia nonna, aggredire mio padre, arrestarlo, sparare ai miei fratelli, fare irruzione nella casa della mia famiglia, bruciare i nostri campi, portarci via la terra, abbattere i nostri alberi. L’hanno fatto per anni e dopo il 7 ottobre la guerra è stata usata come alibi per dare legittimità a queste azioni.

Purtroppo il popolo palestinese non ha alcuna protezione da ciò che queste persone stanno facendo. Non credo che la comunità internazionale abbia bisogno di qualcosa di più di quello che sta accadendo a Gaza per muoversi. E tuttavia ancora non si muove. Questo permette ai coloni e agli estremisti di continuare ad agire come se i palestinesi non avessero il diritto di esistere. Che vuol dire aggredire e uccidere. Noi ogni giorno documentiamo quello che succede sui nostri social: mostriamo come i coloni si comportano con le nostre famiglie, con le donne, con i bambini.

Non possiamo paragonare quello che stiamo vivendo a quanto sta accadendo a Gaza, perché là è un genocidio, ma anche in Cisgiordania uccidono persone, demoliscono case, bombardano.

Eppure crediamo nella resistenza nonviolenta. Le nostre armi sono le macchine fotografiche: andiamo sul campo a documentare la verità affinché la gente sappia. Svolgiamo poi diverse attività per sostenere il popolo palestinese e resistere all'occupazione. Non abbiamo scelta, dobbiamo credere nella pace. Dobbiamo credere che un giorno il mondo vedrà ciò che accade e reagirà. Cerchiamo di dar voce alla sofferenza che la nostra gente sta affrontando in questo momento a Masafer Yatta e in generale in Cisgiordania.

Sono orgogliosa di quello che faccio. Come donna, cerco di sostenere e incoraggiare le altre donne che oggi sono in prima linea nella resistenza nonviolenta: operano dovunque si trovino, a casa, nei campi, a scuola... A ispirarmi è stata mia nonna, morta tre anni fa. Aveva 96 anni ed era l’icona di questa nostra lotta. Ha vissuto l’evoluzione dell’occupazione e ha attraversato tutte le guerre, la Nakba (l'esodo forzato del '48), la pulizia etnica e infine l’apartheid. Ci raccontava la storia della sua vita e di come ha resistito. E grazie a lei ogni membro della mia famiglia è oggi un attivista. Ha lottato fino alla fine e col suo coraggio ha influenzato tutti coloro che l’hanno ascoltata, non solo la nostra famiglia. Non ha mai smesso di resistere ai coloni per proteggere la famiglia, la sua terra e i suoi animali. Non si stancava di ripeterci che abbiamo il diritto di stare qui, che dobbiamo resistere, lottare per preservare la nostra terra. Nel corso degli attacchi dei coloni è stata più volte ferita. Quando mio padre era ancora piccolo, ha perso un occhio cercando di impedire che lo arrestassero. Alla sua morte aveva chiesto di essere sepolta nella sua terra, ma mio padre ha ricevuto un ordine di demolizione addirittura per la sua tomba.

Noi nipoti abbiamo ricevuto una grande responsabilità e ora è arrivato il nostro turno di portare avanti la missione e far conoscere la sua battaglia, soprattutto ai giovani, che devono trovare la forza di non arrendersi. Nel mio piccolo, spero di portare avanti il suo esempio, anche per le nuove generazioni. Perché quello in corso è il tentativo di cancellare l’identità palestinese. Quindi la nostra missione è di non dimenticare ciò che hanno passato i nostri vecchi, le loro battaglie, per trasmetterlo ai più giovani, nella speranza che un giorno l’occupazione si fermerà.

Gli “internazionali”e gli israeliani “diversi”

Il sostegno internazionale fa parte della nostra resistenza: quello che vedono e poi riportano le persone che vengono qui rappresenta uno strumento importante per far sapere quanto sta accadendo.

Ma se prima della guerra vigeva una sorta di protezione, di trattamento diverso riservato a loro, nel senso che era difficile che venissero attaccati mentre erano in giro con le loro telecamere, ora sembra che non ci sia più questa preoccupazione: gli internazionali vengono aggrediti come gli altri. Questo per noi è un motivo in più per apprezzare ed essere grati verso queste persone che lasciano il loro paese per venire a vivere accanto a noi nelle tende e nelle grotte, per documentare la nostra vita quotidiana e la nostra lotta attraverso video e registrazioni vocali.

Vengono qui anche molti israeliani contrari all’occupazione, che vogliono aiutare il popolo palestinese che vive nelle zone sottoposte al totale controllo dell’autorità israeliana e alle aggressioni degli estremisti. Questi israeliani vengono aggrediti più ferocemente degli altri perché i coloni li odiano. Anche noi palestinesi siamo odiati, ma la cattiveria che esprimono i coloni nei confronti di questi israeliani è più forte: non sopportano che stiano dalla nostra parte.

Circa un mese fa è stato emanato un ordine di evacuazione per un intero villaggio. Due settimane dopo hanno demolito tutte le case, che poi, come dicevo, più che case sono grotte e spazi che la gente in qualche modo sistema non avendo un altro posto dove stare. Hanno distrutto tutto, portato via le cose delle persone e chiuso le grotte. Questa è una delle forme di pulizia etnica a cui stiamo assistendo in questo momento a Masafer Yatta. Siccome l’attenzione sulla Cisgiordania sta calando, ne approfittano per ripulire etnicamente questa area.

Noi, i miei fratelli e i loro amici, siamo andati a sostenere queste famiglie che si sono trovate a trascorrere le giornate e la notte senza alcun riparo. Avevano montato delle tende per non rimanere esposti, ma hanno confiscato anche quelle. È un villaggio a circa mezz’ora di macchina da qui e la strada è molto accidentata. Mio fratello è stato arrestato due volte in questo villaggio e anche mio padre due giorni fa è stato arrestato mentre portava aiuti umanitari e cibo a queste famiglie. I soldati non vogliono che si intervenga e così hanno confiscato l’auto di mio padre per un mese e gli hanno imposto una multa salata. Dopo averlo rilasciato, lo hanno seguito e sono entrati in casa nostra intimandoci di uscire perché questa è un’area militare.

Sameeha Hureini

Siccome sanno che la nostra è una casa di attivisti cercano sempre un appiglio per formulare un’accusa e procedere all’arresto. Noi gli abbiamo detto: “Stiamo solo aiutando delle persone, portando del cibo, dell’acqua e del latte per i loro bambini; perché ci trattate come fossimo terroristi?”. Hanno risposto: “Sì, siete terroristi, vi abbiamo detto di non andare in questo villaggio e di non portare cibo o internazionali...”. Non c’è stato niente da fare, hanno ribadito che avrebbero arrestato chi si fosse recato là, anche solo per portare aiuti. Questo è quello che stiamo vivendo oggi.

* * *

Sameeha Hureini, palestinese, è impegnata nel movimento nonviolento Youth Of Sumud (Gioventù della Perseveranza), vive ad At-Tuwani, in Cisgiordania.

Commenti (0)

Nessun commento.

Scrivi un commento

L'indirizzo e-mail non sarà pubblicato. Gli utenti registrati non devono inserire altre verifiche e possono modificare il proprio commento dopo averlo inserito.

Riporta il codice di 5 lettere minuscole scritto nell'immagine. Puoi generare un nuovo codice cliccando qui .

Attenzione: Questotrentino si riserva la facoltà di cancellare commenti inopportuni.