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QT n. 7, 1 aprile 2000 Servizi

L’Aids 20 anni dopo: meno tremendo, più complicato

Coi nuovi farmaci le speranze di vita sono aumentate: ma un eccesso di ottimismo rischia di compromettere la prevenzione.

A partire dai primi anni ’80, cioè dalla "scoperta" della malattia, fino al 1995, quando si arrivò a 5.663 nuovi casi di Aids, la situazione era andata progressivamente aggravandosi, facendo dell’Italia il paese europeo più colpito dopo la Spagna e - a livello mondiale - autorizzando scenari apocalittici; intervenne a quel punto la scoperta di alcuni nuovi farmaci che, combinati tra loro, abbassavano la carica virale dell’Hiv, consentendo per la prima volta un’inversione di tendenza, favorita anche da una campagna d’informazione indirizzata soprattutto ai gruppi considerati più a rischio: omosessuali e tossicodipendenti. E così i nuovi malati di Aids cominciarono a diminuire: 5.010 nel ’96, 3.342 nel ’97, 2.343 nel ’98, 2.090 l’anno scorso.

Negli anni ’80, il malato di Aids trascorreva in ospedale mediamente un’ottantina di giorni l’anno, oggi solo 12.

Ancora: è stato ridotto quasi a zero (2 per cento) il rischio di trasmissione del virus dalla madre al figlio, ed è anche giunto il tanto atteso annuncio che in vista del vaccino si è finalmente imboccata la strada giusta.

Tutto bene, dunque?

Per niente. Al convegno organizzato a Trento dalla Lila (Lega Italiana per la lotta contro l’Aids) il dott. Vittorio Agnoletto, presidente nazionale dell’associazione e membro della Commissione ministeriale sull’Aids, smorza gli entusiasmi dei meno informati: "La tendenza alla diminuzione dei casi sta rallentando, il che significa che gli effetti positivi delle nuove terapie sono già stati raggiunti negli anni scorsi. Quindi, o si scoprono nuovi farmaci più efficaci, o il trend positivo si arresta".

In effetti, ogni progresso raggiunto ha comportato nuovi problemi e nuovi rischi. Per cominciare, le vittorie conseguite hanno prodotto un forte abbassamento del livello di attenzione. Le campagne di informazione degli anni scorsi, infatti, hanno positivamente influenzato i comportamenti dei gruppi considerati più a rischio, inducendoli comunque a sottoporsi al test, mentre le persone "normali", contagiate da un ottimismo fuori luogo (ormai ci sono dei farmaci efficaci, e poi il vaccino è quasi pronto...), si sentono al sicuro: e così anche nel ’99 la percentuale di eterosessuali che hanno contratto l’Aids è ulteriormente aumentata: +24%.

Proprio perché oggi si dispone di farmaci efficaci, sarebbe più importante di un tempo scoprire la sieropositività in modo tempestivo, grazie ai test: e invece, l’anno scorso, il 60% dei nuovi casi di Aids conclamato non sapevano neppure di essere sieropositivi. Quanto al vaccino, d’altronde, ci vorranno ancora 6/7 anni, se tutto andrà bene.

"Purtroppo - dice Michele Poli, presidente della L.I.L.A. trentina - è difficile far capire all’opinione pubblica che, diminuendo i decessi, la prevenzione è più importante di prima".

E ancora: è vero che la trasmissione dell’Hiv dalla madre al feto è molto meno frequente di un tempo, ma questo comporta il fatto che molte più donne sieropositive affrontano il rischio di una gravidanza.

Ed è indubbio che per un malato di Aids l’aspettativa di vita è notevolmente aumentata, ma questo comporta una serie di problemi dal punto di vista assistenziale. Paradossalmente, quando l’Aids era più letale e i malati sapevano di avere davanti a sé pochi mesi di vita, le cose erano (drammaticamente) più semplici. Ora invece il malato può anche permettersi di progettarsi un futuro, ma con mille condizionamenti, costituiti, tanto per cominciare, dalla pesantezza delle terapie, che hanno gravi effetti collaterali e intralciano pesantemente la quotidianità di chi voglia condurre una vita quasi normale: "Sono farmaci - ha detto un malato - che ti fanno sopravvivere, ma non è detto che ti lascino vivere".

Si aggrava, evidentemente, il problema della privacy: sapendo che non vivrò a lungo, posso anche far sapere che ho l’Aids, ma se cerco un lavoro o se voglio fare delle amicizie, la riservatezza, almeno al momento dell’approccio, è molto importante e invece non sempre viene tutelata: "non tanto perché il tabù sia stato superato - spiega Michele Poli - ma per leggerezza, per un ottimismo fuori luogo. Un piccolo esempio è la questione del nuovo tesserino sanitario, dove viene riportato direttamente il codice che si riferisce all’Aids, mentre prima questa annotazione si trovava su un talloncino a parte, che quindi veniva esibito solo quando ce n’era effettivamente bisogno".

In conclusione, l’Aids è una malattia terribilmente complessa, che sempre più va trattata non solo nei suoi aspetti sanitari,, ma anche in quelli sociali, relazionali, sindacali, eccetera.

Cambiando la malattia, s’impone anche la necessità di modificare il tipo di assistenza, con meno ospedale, più ambulatorio e più day-hospital.

Un altro momento dell’intervento si sta trasformando: le case-alloggio. Sono piccole strutture riservate a non più di 10-15 malati, dalle quali - è stato detto da qualcuno - non si esce più come una volta solo in posizione orizzontale: oggi le case-alloggio non accolgono più soprattutto persone da accompagnare verso la morte, ma anche chi necessita di un sostegno per affrontare delle terapie particolarmente impegnative, chi sta preparandosi a riconquistare la piena autonomia, chi semplicemente non ha un alloggio.

Rispetto a questi cambiamenti e alla necessità di adeguarvisi, come rispondono le istituzioni?

Ahimè, inseguendo faticosamente la realtà: in molte regioni d’Italia non sono state ancora approntate le strutture per l’Aids "degli inizi"...